I personaggi caricaturizzati di Carlo Levi
di Stefania Romito
Cristo si è fermato a Eboli esalta l’identità peculiare di ogni rappresentante della modestissima umanità rappresentata. Dall’aspetto fisico del personaggio traspare la personalità e il suo destino. Le tipologie ritrattistiche che tende ad utilizzare Carlo Levi sono principalmente due: ritratti caricaturizzati e ritratti mitizzati. I primi sono dedicati ai galantuomini, i secondi ai contadini, come ad esempio la figura del dottor Gibilisco viene dipinta impiegando una tecnica di deformazione grottesca (“… uomo anziano, grosso, panciuto, con una barba grigia a punta…”). Di tutt’altra indole è la presentazione dei personaggi popolari il cui aspetto fisico e l’abbigliamento mirano a un effetto di mitizzazione “grandeggiante”.
La definizione fisionomica non è affatto univoca: il ritrattista appare proteso a cogliere la complessità contraddittoria di un carattere che lo affascina e che al contempo lo turba, sia nel caso di descrizione di galantuomini che di contadini. Il criterio della raffigurazione unisce finezza descrittiva e acume interpretativo al fine di cogliere la sostanza etico-intellettuale del personaggio.
Levi non ricorre a descrizioni stereotipate. Non rinchiude i caratteri dei personaggi in maschere fisse. Dopo la presentazione iniziale, ogni personalità rivela aspetti ulteriori mai scontati. Questo forte senso dell’individualità ha un significato sociale importante. Il Cristo rappresenta un microcosmo diviso perfettamente in due metà incomunicabili fra loro. I galantuomini sono accomunati da uno squallido interesse di classe e passano il tempo in bieche guerriglie intestine, mentre i contadini manifestano un sentire fraterno, ma rimangono rinchiusi nella propria solitudine.
Fra vittime e carnefici si stabilisce, però, un legame di connivenza, con effetti devastanti sia per gli uni che per gli altri. Si comprende, quindi, come nessun personaggio possa assumere un rilievo co-protagonistico. Lo sguardo critico del narratore assicura la peculiare vivacità dei personaggi ritratti a iniziare da don Luigino la cui smania di comandare appare minata da un infantilismo psichico irrimediabile, dove si mescolano cattiveria e bisogno d’affetto, presunzione e senso d’inferiorità. Questa povertà umana manifesta effetti diversi in sua sorella donna Caterina perseguitata da risentimenti d’odio maniacali.
A questi “eroi” del ridicolo fanno riscontro uomini e donne la cui fierezza ammirevole appare condizionata dalla rassegnazione, come nel caso del vecchio becchino sospeso fra l’umano e l’oltreumano. Un analogo discorso è applicabile per donna Giulia, la cui condizione servile rappresenta il contraltare perfetto della figura podestarile, sorretta dagli influssi arcani della magia, pronta a sottomettersi al volere altrui.
Levi sottolinea che la condizione contadina è ugualmente misera sia in regime di piccola proprietà (come a Gagliano), sia di latifondismo (come a Grassano), eppure il fatto che a Grassano esista uno strato di borghesia minuta dotata di una certa intraprendenza e modernità mentale fa sì che questa realtà appaia meno infelice. I ritratti dell’oste Prisco, del figlio Capitano, del barbiere Antonino, hanno una coloritura di simpatia allegra, e lo sfondo su cui sono proiettati appare quasi picaresco a confronto con il ristagno funereo dell’ambiente gaglianese.
La descrizione dell’ambiente mira a restituire il senso di costrizione claustrofobia patito dal confinato Levi. Il protagonista evita di esasperare il senso dell’imprigionamento; lo vediamo, quindi, ritagliarsi un suo doppio spazio di libertà all’estremo del breve percorso concessogli, ossia nel cimitero, unico luogo chiuso, fresco e solitario di tutto il paese. Questo luogo diventa spazio privilegiato di un riposo fantasticante e smemorante, lontano dalla piazza dove è inevitabile incontrarsi con i petulanti galantuomini. Ma ciò non basta a liberarlo dalla noia, suo maggiore tormento. Non gli resta che esternare l’ozio del sentimento proiettando il tedio nel panorama esterno.