GEO & VIAGGI di Giorgia Miazzo. Angola, tra passione e dolore
Dopo aver percorso 900 chilometri in mezzo alla vegetazione africana, incontro in quel nulla piccoli villaggi, abitati da poche persone che si sostengono tra loro, e appena mi vedono si avvicinano e mi guardano con curiosità, mi puntano addosso i loro occhi immensi, perché essere bianchi deve essere strano, poi appena accenno un sorriso mi danno il cuore… mi disarma toccare con mano, confermare, che l’avere confonde l’essere, e l’essere non ha bisogno di avere

«L’Angola è quattro volte e mezzo l’Italia, ci vivono più di 18 milioni di persone e si trova a 1.100 metri rispetto al livello del mare. La terra è baciata dal sole e il paesaggio è spettacolare, la savana copre vaste aree con innumerevoli baobab alti fino a 40 metri e ospita tra le tante specie animali leoni, iene, elefanti, antilopi, ippopotami, coccodrilli e simpatici macachi. Gode di oltre 1.600 km di costa con spiagge ancora selvagge e abbondanti fiumi che sono una salvezza per le popolazioni interne. Il più lungo è il Kwanza, supera i 1.000 km, è navigabile e ha dato nome alla moneta locale. Inoltrandosi nell’entroterra si è sopraffatti dalla vegetazione incontaminata e dalle suggestive cascate che superano i 100 metri. Si dice che il sottosuolo abbia più del 20% di buonissima acqua antartica e possiede un immenso giacimento di riserve idroelettriche. Gli angolani sono al 98% neri del ceppo Bantu, praticano in gran parte la fede cattolica e parlano, oltre al portoghese, lingua nazionale ma elitaria, parecchi idiomi autoctoni che coesistono tra loro. Pur manifestando uno sguardo profondo, orgoglioso e dignitoso, sono caratterizzati da un carattere sereno, bonario, più sentimentale che razionale.
L’Angola è la maggior produttrice di petrolio del continente, è molto ricca di carbone e al quarto posto a livello mondiale per i diamanti, sebbene finora ne siano stati estratti solo il 18%. Tali risorse vengono gestite dalle multinazionali, determinando così un enorme divario tra una smisurata classe povera che guadagna due dollari al giorno e un’élite milionaria formata dal 6-7% della popolazione che viaggia in elicottero, va dal parrucchiere a New York e cena nei ristoranti da 1.000 dollari a testa. Di fronte a tale disuguaglianza, il governo mira a sollevare il Paese utilizzando i guadagni delle materie prime per migliorare l’alfabetizzazione, la sanità e l’igiene pubblica, con l’accesso all’acqua potabile e all’elettricità. Qui c’è bisogno di tutto: dall’importazione di fotovoltaici agli impianti logistici, dall’implementazione del turismo e alla creazione di un braccio tecnico operativo. L’Angola è un paese minato e dimenticato, sopraffatto dalla ferocia, dal martirio e dalla corruzione della guerra civile durata quasi 30 lunghissimi e sanguinosi anni, che oggi sta tornando a vivere e sperare, sebbene fatichi a immaginare un futuro diverso.

La capitale Luanda supera i 6 milioni di abitanti, ovvero un terzo della popolazione nazionale, ed è la città della follia, una tra le più care e assieme più povere al mondo. Affittare un bilocale costa più di 5.000 euro, una pizza e una bibita da asporto 50 e 1 kg di spaghetti 6. Per queste diversità, la gente che vive nella miseria mostra spesso comportamenti aggressivi, è arrabbiata con quel mondo che non le ha mai teso una mano e corre disperata verso un futuro per riscattarsi da quanto le è sempre stato negato. Vivono nelle musseque, agglomerati ottenuti con avanzi di lamiere arrugginite e plastiche, dai tetti in lamina di amianto, le cui polveri che produce lo sgretolamento provocano il cancro. Sono piccole, ammucchiate e caldissime, prive di tutto, con poco ossigeno; alcune adibite a negozio riconoscibile da una targa di latta, una logora tendina di perle o una scritta dipinta sopra. Accanto si trovano montagne di rifiuti e nei paraggi c’è qualcuno che va in cerca di viveri e un po’ più in là nugoli di ragazzi che giocano a piedi nudi con un pallone fatto di stracci e cartoni. Non esistono fognature, l’acqua non è potabile, l’elettricità va e viene e il Bairro da Lixeira, ossia Quartiere delle Immondizie, è il simbolo di un popolo bisognoso di aiuto. Nei mercati, affollatissimi e vocianti, strutturati o improvvisati sui marciapiedi e ricchi di odori intensi, si trova di tutto e qualsiasi scusa è buona perché l’importante è vendere. In questa città caotica contrastano le donne vestite con abiti tipici dai colori sgargianti, dall’andatura fiera e sicura, da sole o in gruppo, che procedono con enormi ceste sopra la testa e con i loro piccoli legati sulla schiena. I bambini passano intere giornate a giocare all’aperto e quando mi incontrano sono curiosi e sgranano occhi intensissimi molto espressivi. Eppure, in chiesa gli angolani ci vanno vestiti di tutto punto, ordinati e puliti, con treccine sui capelli, foulard colorati per ornarsi la testa e scialli vivaci trasformati in gonne, tocchi di eleganza e di lontana tradizione.

Dopo più di 500 chilometri raggiungo la città costiera di Benguela, seconda all’Angola e capitale culturale del paese, che mantiene un’atmosfera tranquilla e più vivibile. La gente è accomodante, lo dimostrano con sorrisi bianchissimi e immensi da toccare gli orecchi, mi sprofondano gli occhi addosso e hanno la capacità di spogliarmi con uno sguardo, così non mi resta che piangere e in un attimo mi libero della gelida corazza che siamo abituati a indossare.
Dall’unica strada che porta in questa regione meridionale, si trovano panorami mozzafiato in continua evoluzione nella forma e nei colori, acacie rosse, oleandri, baobab, buganvillee, coste, terreni verdeggianti, vaste savane, vallate lunari, montagne, fiumi, terre coltivabili, allevamenti. Ogni tanto si scorgono i kimbo ossia i villaggi di capanne di fango e paglia, dove vivono di agricoltura e allevano qualche capretto, maiale o gallina.
Alla vista di un uomo bianco mi si avvicinano in gruppo per vendere i loro prodotti della terra ma restano immobili, a un passo da me, ad aspettare la mia decisione, rimangono così anche a lungo, osservandomi con interesse e un po’ di esitazione, ma appena abbozzo un sorriso ricambiano offrendomi tutto quello che hanno e in quel momento si prova una responsabilità immensa. Quando riparto mi fissano come per chiedermi con quale coraggio lo faccio, e mi sento morire. Questo sentimento di grande colpa e inutilità l’ho provato solo qui.»

Giorgia Miazzo è consulente linguistica, interprete e traduttrice giurata, scrittrice, giornalista e tour leader abilitata. Ricercatrice del patrimonio immateriale dell’emigrazione italiana nel mondo, è ideatrice di progetti quali Cantando in talian o veneto-brasilian, Viaggio di sola andata per la Mèrica, Racconti di due mondi, Veneti al de là del mar, Le grandi migrazioni, Grand Tour do Sul, Occhi oltre il mare. Ha istituito il comitato scientifico VSA-M dell’Università degli Studi di Padova e il progetto permanente Grandi Migrazioni.
Ha pubblicato Cantando in talian. Imparar el talian co la mùsica; Scoprendo in talian. Viaggio di sola andata per la Mèrica; Descobrindo o talian; Le grandi migrazioni. Dal nord Italia al Brasile; I miei occhi hanno visto. 45 viaggi alla scoperta del mondo; Veneti al de là de Mar: Fotografie e Racconti d’Oltreoceano. È stata premiata con: Premio internazionale Globo Tricolore dalla Presidenza della Repubblica Italiana e RAI; Premio per il Miglior Lavoro nelle Discipline Umanistiche dal Consiglio della Regione Veneto, Premio Internazionale Salva la tua Lingua Locale al Campidoglio, Premio Scalabrini Lingue Madri, Premiazione Patrimonio Regione del Veneto, Premiazione I Miei Occhi hanno visto presso il Senato della Repubblica e il Consiglio della Regione Veneto.
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