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Foibe, per non dimenticare, oggi 10 febbraio il Giorno del Ricordo

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 La legge 30 marzo 2004 n. 92 : La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale.

Tra il maggio e il giugno del 1945 migliaia di italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia furono obbligati a lasciare la loro terra. Altri furono uccisi dai partigiani di Tito, gettati nelle foibe o deportati nei campi sloveni e croati.

Fin dal dicembre 1945 il premier italiano Alcide De Gasperi presentò agli Alleati «una lista di nomi di 2.500 deportati dalle truppe jugoslave nella Venezia Giulia» ed indicò «in almeno 7.500 il numero degli scomparsi».

In realtà, il numero degli infoibati e dei massacrati nei lager di Tito fu ben superiore a quello temuto da De Gasperi. Le uccisioni di italiani – nel periodo tra il 1943 e il 1947 – furono almeno 20mila; gli esuli italiani costretti a lasciare le loro case almeno 250mila.

I primi a finire in foiba nel 1945 furono carabinieri, poliziotti e guardie di finanza, nonché i pochi militari fascisti della RSI e i collaborazionisti che non erano riusciti a scappare per tempo (in mancanza di questi, si prendevano le mogli, i figli o i genitori).

Le uccisioni avvenivano in maniera spaventosamente crudele. I condannati venivano legati l’un l’altro con un lungo fil di ferro stretto ai polsi, e schierati sugli argini delle foibe. Quindi si apriva il fuoco trapassando, a raffiche di mitra, non tutto il gruppo, ma soltanto i primi tre o quattro della catena, i quali, precipitando nell’abisso, morti o gravemente feriti, trascinavano con sé gli altri sventurati, condannati così a sopravvivere per giorni sui fondali delle voragini, sui cadaveri dei loro compagni, tra sofferenze inimmaginabili.

Soltanto nella zona triestina, tremila sventurati furono gettati nella foiba di Basovizza e nelle altre foibe del Carso.

A fronte di tale crudeltà, la vigliaccheria di alcuni personaggi ai vertici della nostra repubblica insignirono il maresciallo Tito, colpevole dell’eccidio in danno degli italiani Giuliano-Dalmati, della più alta onorificenza italiana.

Pazzesco che chi ha perseguitato i nostri connazionali abbia ricevuto tale riconoscimento. Fratelli d’Italia ha presentato una proposta di legge per porre rimedio a questa assurdità: rendiamo giustizia alle vittime delle Foibe! ( G. Meloni)”.

 

Sabato 6 febbraio, è andato in edicola con il Giornale “Verità infoibate – Le vittime, i carnefici, i silenzi della politica” Un saggio storico sulla pagina più nera del comunismo in Italia. Scritto a quattro mani da due giornalisti di gran penna e grande onore (Fausto Biloslavo e Matteo Carnieletto) e presentato da un altro grandissimo del giornalismo italiano: Toni Capuozzo.

Ebbene, una operazione di verità contro il silenzio, l’ambiguità e, ancora, settant’anni dopo fatti di una disumanità inimmaginabile, la menzogna postcomunista e delle suffragette che stanno lì in tv a dirigere il traffico dell’omologazione, viene censurata. Da chi? Dallo strumento che si vanta di eleggere la libertà di espressione degli individui ad algoritmo planetario. Facebook.

Scrive Biloslavo: «Facebook, il Grande Fratello politicamente corretto, si è rifiutato di promuovere questo video con la voce di Toni Capuozzo. Se volete andate sulla mia pagina per commentare o condividere il post e il video dimostrando che gli algoritmi del Grande Fratello non possono fermare il ricordo della tragedia delle foibe e del dramma dell’esodo».

I ventimila e più martiri immolati dalla barbarie comunista titina, appoggiata dai loro compagni in falce e martello italiani, furono anche ulteriormente oltraggiati.

Le immagini in bianco e nero dell’Istituto Luce mostrano l’arrivo di Tito in Italia il 25 marzo 1971. «Aeroporto di Ciampino. Per questo aereo sono in attesa tutte le più alte cariche dello Stato: da Saragat a Colombo a De Martino, Pertini, Fanfani e Moro. – annuncia il cronista – L’aereo è un Caravelle ornato con stelle rosse. Viene da Belgrado, Jugoslavia, e porta un ospite che, per la prima volta, giunge in visita ufficiale in Italia. L’ospite, eccolo, è Josip Broz, detto Tito La Jugoslavia ha bisogno di amici, ma preferisce, e di molto, quelli europei, l’Italia soprattutto. Ha detto Tito, appena arrivato: Questo incontro getta una prima pietra. ( la pietra della vergogna n.d.r.).

Solamente 2 anni prima, nel 1969, il Maresciallo è stato «decorato come Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica italiana» con l’aggiunta del Gran Cordone, il più alto riconoscimento del nostro Paese, durante la visita di Saragat a Belgrado per finalizzare alcuni accordi economici con la Jugoslavia. Onorificenza che ancora oggi campeggia, quale oltraggio ai nostri Fratelli trucidati, sul sito del Quirinale. Nel viaggio in Jugoslavia del 1969, durante i numerosi e affettuosi discorsi, il presidente Saragat concludeva sempre con uno stucchevole brindisi rivolto a Tito: «Levo il calice, signor Presidente, al benessere Suo e della gentile signora Broz, alle fortune dei popoli jugoslavi e all’amicizia fra i nostri Paesi».

Mai nessun cenno, neanche alla lontana, alle foibe.

Non ci furono solo gli infoibati, ma anche oltre 250.000 uomini e donne italiani che furono depredati e deportati: gli esuli istriani.

Circa quattromila in Puglia.

Delton”, “Cervarich”, “Jakus”, “Sirotich”, “Giustin”, sono solo alcuni dei cognomi che ancora oggi figurano tra i cittadini pugliesi. Alla Puglia, nel 1947, vennero assegnati circa 4000 esuli di cui la frazione maggiore a Bari, ove la comunità di quegli ex “stranieri e senza patria” è ancora prolifica e attiva. (D. SIMONE, Le parole nostre. Viaggio nella memoria di un profugo istriano, Bari, Edizioni dal Sud, 2014.)   Gli accordi stipulati con gli anglo-americani non furono sufficienti a sanare la situazione: si passò progressivamente dalle foibe all’esodo degli istriani, che raggiunse la sua punta più alta nel 1947, dopo la firma dei trattati di pace. Bari e la Puglia accolsero migliaia di esuli provenienti da Zara, Fiume, Pola e dalle altre località dell’Istria, assieme ad altri italiani provenienti dalla Dalmazia, dalla Grecia e dalle isole del Dodecaneso.

Poco si sa, invece, degli altri dislocati nella regione ed in particolare a Taranto: circa 800 persone, una piccola comunità seminascosta, i cui membri hanno spesso subìto o deciso la distorsione dei propri cognomi per non incorrere in pericoli.

Oltre alle fonti orali   vi è materiale documentale presente presso l’Archivio di Stato della città jonica, che custodisce soprattutto la documentazione relativa al supporto economico e all’assegnazione degli alloggi alle famiglie di esuli . Accanto a questo, la stampa periodica, in particolare la «Gazzetta del Mezzogiorno» e il «Corriere del Giorno» dell’epoca, è stata fondamentale per ricostruire gli eventi che hanno preceduto l’arrivo degli esuli in città. Ed è anche la stessa stampa che permette di percepire, al di là del mero racconto dei fatti, il clima di ostilità con cui l’Italia attendeva i profughi, eccezion fatta per alcune opere benefiche.

In città, oltre ai cognomi che campeggiano sulle pulsantiere dei citofoni dei palazzi, sono anche i luoghi a parlare ancora. Giunti a Taranto su convogli ferroviari, dopo aver affrontato numerose angherie nelle varie soste italiane, vennero condotti dapprima nella rada di Capo San Vito, poi smistati tra l’omonimo campo profughi, l’isola della città vecchia (i celibi, “rei” di poter essere un pericolo per le giovani nubili locali) e le “baracche Ausonia”, presso il quartiere Tamburi. Sarà proprio qui che, nel 1956, verranno consegnate le unità immobiliari ai profughi e rifugiati politici istriani, realizzate con i fondi della UNRRA-CASAS, organizzazione costituita a Washington, nel 1943, dalle Nazioni Unite e che prenderanno il nome popolare di “Villaggio dei Polesani”.

Dopo i celebri fatti della stazione di Bologna del 18 febbraio 1947 alla stazione di Bologna con i ferrovieri che si rifiutarono persino di dare ai profughi un bicchiere d’acqua: li consideravano fascisti perché erano scappati dal regime comunista di Tito. In stazione, la Pontificia opera di assistenza e la Croce Rossa Italiana prepararono pasti caldi e generi di conforto. Ancor prima dell’arrivo, alcuni ferrovieri sindacalisti comunisti minacciarono, con un comunicato, di bloccare la stazione con uno sciopero, se il “treno dei fascisti” si fosse fermato. Quando il convoglio giunse in stazione, un gruppo di giovani attivisti comunisti lanciarono contro “il treno della vergogna” sassi e ortaggi e rovesciarono sui binari il latte destinato ai bambini, impedendo alle dame di S. Vincenzo di avvicinarsi. Il treno fu costretto a ripartire e solo a Parma i profughi poterono ricevere assistenza. L’evento venne ripreso da uno dei militari e il filmato venne custodito nell’archivio della marina militare. (Cfr. V. IACUS, Una famiglia istriana. Dodici anni di storia, Taranto, Antonio Mandese Editore, 2019, p. 119).

Imboccatura di una Foiba

A Taranto gli esuli divennero bersaglio di violenze, maldicenze ed angherie. Ad esempio, nel 1948, alla vigilia delle elezioni politiche, comparvero in città numerosi fantocci impiccati con la scritta “Polesani fascisti”. L’esule non solo veniva additato come “fascista” e “traditore”, ma veniva anche visto come un usurpatore, un parassita sociale. In quello stesso anno, così denso di significati per l’Italia, si colloca una delle più gravi aggressioni alla comunità istriana ad opera di cittadini tarantini. Armati di bastoni, fucili da caccia e armi, un gruppo di manifestanti comunisti, dopo le impiccagioni simboliche dei fantocci, scelse di recarsi presso il campo profughi per una spedizione “punitiva”. Il comando locale della marina militare provvide a sostituire il reparto della caserma adiacente il villaggio con gli uomini del 1° reggimento “San Marco”. Quando il gruppo di assalitori stava per raggiungere lo stabilimento di Praia, seguito da un folto gruppo di uomini della polizia, donne e bambini del campo profughi furono nascosti nell’adiacente pineta; quando la tensione divenne palpabile e i manifestanti armati si avvicinarono troppo ai profughi, le forze di polizia si interposero tra i due gruppi; giunsero in loco anche gli uomini del “San Marco”, il che consentì alla polizia di impedire un massacro.

Saranno numerosi, nei mesi e negli anni a seguire, gli episodi di violenza tra esuli e bande armate locali, spesso costituitesi negli ambienti sindacali, tesi a colpire la popolazione istriana, sia all’interno dei campi profughi, sia sul posto di lavoro. Era questo il caso dell’arsenale militare: qui giungevano molte delle professionalità istriane pronte ad essere riconvertite nel tessuto lavorativo tarantino. Più volte i profughi ricollocati si trovarono di fronte a scioperi e picchetti per impedire loro di fare ingresso dai cancelli principali per raggiungere il posto di lavoro. Episodi a cui seguirono «trattative, accordi e disaccordi per qualche tempo poi, forse per stanchezza, le cose presero la direzione normale». Nel caso tarantino, più o meno uniformemente, la vita degli esuli è andata avanti “senza lode e senza infamia”, come afferma un adagio che molti degli intervistati riprendono. Se ci fu accoglienza, arrivò dall’alto, a norma di legge, ma la vera integrazione fu una battaglia persa a suon di storie mai raccontate, spesso nemmeno ai propri figli, di cognomi cambiati e di vite isolate.

A simboleggiare una frattura mai sanata, l’episodio del febbraio 2012. In quell’occasione era stata affissa una targa per commemorare le vittime delle foibe. La targa venne distrutta poche ore dopo e oltraggiata con la scritta “Infoibare un fascista non è un reato”.

Uno scempio di pochi, l’ignavia di molti.

Cosimo Lombardi

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Redazione Oraquadra

La redazione.

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