L’ispirazione onirica di Buzzati nel Deserto dei Tartari
di Stefania Romito
Il Deserto dei Tartari è il romanzo più famoso di Buzzati che l’ha consacrato tra i grandi scrittori del Novecento italiano. Pubblicato nel 1940, quando Buzzati aveva 33 anni e da circa 10 anni lavorava come giornalista al Corriere della Sera. Ed è stato proprio il suo lavoro nell’ambiente editoriale a far insorgere in lui la consapevolezza della fuga del tempo. Buzzati ha visto i suoi colleghi invecchiare nell’inutile attesa di un evento importante che desse un senso alla loro attività. Una professione fatta di regole rigide, che isola il giornalista nei limitati confini della sua scrivania. Il Deserto dei Tartari è proprio la storia della vita nella fortezza del giornale, che promette i prodigi di una solitudine che è vocazione.
Buzzati stesso ha dichiarato che l’ispirazione del romanzo gli è giunta dalla monotona routine redazionale notturna che faceva a quei tempi: “Molto spesso avevo l’idea che quel tran tran dovesse andare avanti senza termine e che mi avrebbe consumato così inutilmente la vita. È un sentimento comune, io penso, alla maggioranza degli uomini, soprattutto se incasellati nell’esistenza ad orario delle città. La trasposizione di questa idea in un mondo militare fantastico è stata per me quasi istintiva”.
Una confessione di quella che è stata la sua idea ispiratrice. Buzzati sceglie il contesto militare poiché particolarmente adatto per descrivere il disagio esistenziale dell’uomo contemporaneo, la fuga del tempo e l’attesa incessante di una svolta che renda la vita degna di essere vissuta. Buzzati ha spiegato di essere rimasto completamente estraneo alla vita politica del suo tempo, di aver addirittura ignorato l’arrivo di Mussolini al potere, poiché riteneva che la buona letteratura deve essere capace “di trasportare il lettore in un universo fantastico o, almeno, in un universo diverso dal suo”. E ha dichiarato di avere scelto come protagonista del romanzo un soldato perché il militare è soggetto ad una gerarchia e a delle regole disciplinari ben precise in quanto addetto a svolgere macchinalmente sempre le stesse funzioni. Per Buzzati rappresentava l’involucro perfetto per trasmettere il disagio dell’uomo moderno e della società italiana contemporanea, da poco sotto il controllo dittatoriale di Mussolini.
Dino Buzzati è stato definito lo scrittore dell’assurdo-reale, di quell’assurdo che diviene realtà sotto gli occhi di chi, vivendo, scruta ogni piega della propria esistenza e di ciò che lo circonda. È lo scrittore che attinge dal reale per far sognare. Sogno, però, inteso non come alienazione dalla realtà, quanto piuttosto come “amplificazione del reale”. Buzzati scrive il Deserto dei Tartari in terza persona, riuscendo però a ottenere lo stesso coinvolgimento empatico della prima persona. Io che scrivo mi rendo perfettamente conto di quanto sia difficile ottenere questo risultato. Solitamente la scelta di una modalità piuttosto che di un’altra dipende dal tipo di storia che si intende raccontare e da come la si desidera narrare. Nei miei romanzi ho utilizzato a volte la prima persona, a volte la terza a seconda del risultato che intendevo ottenere.
Se, ad esempio, ho necessità di mettere in luce l’interiorità, la psicologia di un personaggio (in un romanzo intimistico, di taglio psicologico) io narratore dovrò calarmi all’interno del personaggio. Di conseguenza il punto di vista sarà esclusivamente quello del personaggio. Io, quindi, sarò un narratore omodiegetico, interno al personaggio, e questo rappresenta dei limiti, ma possiede al contempo incredibili potenzialità a livello di resa narrativa. Dei limiti in quanto il punto di vista sarà soltanto quello del personaggio. Io potrò narrare solo quello che vede il personaggio e saprò solo ciò che conosce il personaggio. Le potenzialità, però, saranno di gran lunga superiori ai limiti poiché il mio racconto sarà molto più coinvolgente. Il lettore avrà l’impressione di ascoltare direttamente la voce del personaggio. Utilizzando, invece, la terza persona il narratore è esterno al personaggio. Lo vede dal di fuori, è quindi eterodiegetico e onnisciente in quanto a conoscenza di fatti che il personaggio protagonista può anche non conoscere.
Questo approfondimento permette di renderci conto della straordinarietà della scrittura buzzatiana. Il fatto di essere riuscito ad ottenere la stessa efficacia narrativa della prima persona utilizzando la terza persona. Un qualcosa di non comune. Di davvero eccezionale nella sua particolarità e resa emozionale, tanto più se si considera che impiega un taglio giornalistico, asciutto, con termini semplici ma intrisi di pregnanti significanti.
Un’altra straordinarietà che ho riscontrato in questo romanzo (che la trasposizione cinematografica è riuscita a rispettare in maniera piuttosto fedele) è il fatto di constatare che la storia non annoia mai, sebbene non accada mai nulla di eclatante e nonostante si viva in costante attesa, come sospesi nel tempo. Lo stile di scrittura di Buzzati potrebbe essere considerato “onirico”. Uno stile nel quale ricorrono, anche in maniera ossessiva, i temi fondamentali. Nel caso del Deserto dei Tartari dominano i temi dell’attesa, il trascorrere del tempo, il senso della morte, l’illusione e la delusione, il vuoto esistenziale, l’ansia di colmarlo e la solitudine.