La religiosità esistenziale di Giuseppe Berto in Anonimo Veneziano
di Stefania Romito
“Il suicidio come intervento dell’uomo in uno dei due fatti che gli sfuggono, la vita e la morte“.
In Anonimo Veneziano di Giuseppe Berto, questa frase di Ottiero Ottieri corregge quella dell’Ecclesiaste in cui si afferma che nessuno può niente sul giorno della morte (primo riferimento all’Ecclesiaste che precede il secondo incisivo nel finale di romanzo). Qualcosa si può fare, rivendica il protagonista, il cui destino è segnato da una malattia incurabile, appellandosi al libero arbitrio. Qui si fa riferimento anche al suicidio di Hamingway, sebbene non sembri volerne seguire l’esempio. Berto, nella Prefazione al romanzo, infatti scrive:
«Hemingway diceva che uno scrittore, se è abbastanza buono, deve misurarsi ogni giorno con l’eternità, o con l’assenza di eternità. Io non posso giurare d’essere uno scrittore abbastanza buono, però la fatica di misurarmi con l’eternità o, peggio, con l’assenza di eternità, la conosco anch’io».
Ed è proprio nel riferimento all’Ecclesiaste, nel dialogo tra l’uomo e Dio circa il senso dell’esistenza, che emerge (nel romanzo più che nel film) la religiosità dello scrittore veneto. Nella trasposizione filmica questo legame con la religiosità viene espresso mediante la visualizzazione di immagini sacre all’interno della chiesa in cui si registra il concerto, diversamente da quanto avviene nel romanzo in cui la registrazione del concerto si effettua nello studio di lui e non nella chiesa sconsacrata. Notiamo che anche qui, come nel romanzo La gloria, Berto avvia un dialogo con Cristo in termini umani ed esistenziali.
Il tema di eternità traspare anche dall’intento-desiderio del protagonista di voler “infinitare se stesso” attraverso la registrazione del concerto. In questo modo, vivrà per sempre. Soprattutto per il figlio potrà continuare a esistere. Un figlio che non ha visto crescere. Il concerto rappresenta la sua eredità.
Nel libro, diversamente dalla versione filmica, il resto della storia si svolge nel suo studio, poco prima della registrazione dell’Adagio di Benedetto Marcello, “Anonimo veneziano”.
È a questo punto che il protagonista dona alla ex moglie (interpretata nel film da una affascinante Florinda Bolkan) il prezioso tessuto di broccato d’oro, pronunciando la famosa frase proustiana: “Nella donna anche il più grande dolore fa capo alla messa in prova di un abito nuovo”. Un dono al quale si aggiunge nel romanzo la consegna del libro l’Ecclesiaste, dopo averne aperto a caso una pagina in cui si legge:
«L’amore, l’odio, la gelosia che avevano. Spariti. E non c’è più non ci sarà mai più. Qualcosa di loro. Nella totalità delle azioni sotto il sole. Va’ mangia contento il tuo pane. E bevi con cuore allegro il tuo vino. Perché quello che fai è voluto da Dio…».
Un riferimento religioso-esistenziale di grande rilievo in relazione del momento in cui Berto lo inserisce, ossia nell’istante in cui lui si accinge a darle l’ultimo saluto. È ormai sera e lei da lì a poco dovrà andare via.
Giungono i ragazzi. Prima della registrazione lui pensa “La morte è un fatto solitario, non si può morire insieme”… inizia a suonare, poi si arresta e si congeda (per sempre) dalla ex moglie dicendo: “Penso che dovresti andare… il treno non aspetta nessuno”. Lei va e l’uomo riprende a suonare. L’ultima frase del romanzo si riallaccia alla condizione di morte dell’uomo e della città di Venezia.
Nel film, invece, questo ultimo straziante momento viene preceduto dalla visita alla antica bottega di tessuti dove il protagonista acquista alla donna il prezioso tessuto di broccato d’oro. Un frammento di grande suggestione empatica enfatizzata dalla grazia innata dell’attrice Florinda Bolkan. I tessuti che indossa hanno echi d’Oriente.
Alla famosa frase proustiana, l’uomo aggiunge che non si può amare fino in fondo una donna se non si incrociano l’Oriente e l’Occidente. Venezia intesa come crocevia tra Oriente e Occidente. Una concezione esistenziale che rimanda a un viaggio alla ricerca di se stessi.
Ma la morte è sempre più una presenza opprimente tra due anime che si sono ritrovate senza essersi mai perse. La donna, affranta, si offre di assisterlo fino ai suoi ultimi giorni di vita, ma lui rifiuta. Desidera che lei lo ricordi nel pieno delle sue forze. Non vuole pietà, ma solo amore che deve rimanere invariato. Il discorso di lui sul “cane annegato” (presente solo nel film), irriconoscibile nel corpo ma immutato nella dignità dell’anima dello sguardo, rimanda a questo concetto.
La scena finale del film è girata all’interno della chiesa sconsacrata dove i due ex coniugi si sono recati per la registrazione del concerto. Quando arrivano, gli allievi sono già pronti. Accordano gli strumenti e attendono il cenno di lui.
«Al suo cenno gli archi cominciano a suonare. Dapprima appena percettibili poi più sicuri nei lenti accordi d’attesa. E lui attacca, la nota ferma seguita con necessità e precisione dalle altre nell’antico concerto che racconta la rassegnata disperazione per la morte di un uomo e forse di una città e forse anche di tutto ciò che è già vissuto abbastanza».
Il romanzo termina così.
Nel film la esorta a tornare a casa, quindi a far prevalere le ragioni “borghesi” piuttosto che quelle del cuore. Le convenzioni. Quando la realtà è talmente dolorosa, straziante, devastante da poterci distruggere, è opportuno usare lo scudo di Perseo contro Medusa per renderla più accettabile. Un ennesimo atto d’amore da parte di un uomo il cui ultimo desiderio è quello di proteggere la donna amata. Le convenzioni sociali, tanto aborrite dal suo animo anticonformista, ora gli vengono in aiuto trasformandosi in scudo contro gli strazi d’anima.
È così che si conclude la tragedia di un amore che nella sofferenza ha rinvenuto l’essenza del vivere.