Le recensioni di Luca Bovino su: Campiello 2021, morte all’intreccio, intreccio fino alla morte!
Dopo aver letto tutte le opere finaliste del Premio Campiello 2021, legittimamente, il lettore dovrebbe ritenere questa cinquina di romanzi un campione indicativo dello stato dell’arte, e della letteratura, in Italia.
La qualità della giuria, il prestigio del premio, l’ampia risonanza mediatica, il rilievo editoriale, la preminenza dei partecipanti, insomma tutto induce a pensare che chi voglia avere un’idea della tendenza (o della deriva) del romanzo italiano sia arrivato finalmente nel posto giusto, circondato tra le pagine di questo florilegio pentapartito (è un aggettivo!)
E allora parliamone. Che cosa abbiamo letto?
Le cinque opere avevano ingredienti difficili da omogenizzare, e questo forse è stato il punto di forza del nostro osservatorio; varietà è sempre un sinonimo di ricchezza, se non proprio di potenza. C’era l’opera poetica, l’opera saggistica, l’opera clinico-intimista, quella con lo sguardo all’attualità, quella con l’occhio rivolto al secolo scorso.
Ma quali erano i contenuti dei cinque finalisti, e in che modo venivano espressi?
Rispondendo alla domanda rileviamo, innanzitutto, un dato curioso: sono passati solo pochi anni anno dopo il grido d’allarme di alcuni critici sulla tendenza centripeta verso il romanzo (cfr “Non incoraggiate il Romanzo”, Alfonso Berardinelli, 2011); c’avevano detto che tutto sembrava essere destinato ad essere romanzato (dalla presentazione di un programma politico, alla commercializzazione delle mattonelle in ceramica). Avevano introdotto violentemente nel nostro lessico un altro crudele forestierismo per esporre (e allo stesso tempo nascondere) questo concetto: lo story-telling.
Adesso, invece, nel festival del romanzo d’elezione, il lettore ha davanti a sé opere che fuggono dagli archetipi del genere. E sfuggono da precise definizioni di genere.
Iniziamo col dire che ogni romanzo in lizza poteva ben definirsi, a suo modo, sui generis rispetto al contesto nel quale veniva collocato; la stessa definizione di racconto, o novella, o, in definitiva, romanzo, come detto, per molti di loro, stava decisamente stretta.

Sanguina Ancora
Prendiamo, a esempio, “Sanguina ancora” di Paolo Nori, e proviamo ad analizzarlo secondo le canoniche modalità prefigurate da Aristotele (nella Poetica).
Dov’è il tema impossibile ma verosimile che viene raccontato? Dove sono i riconoscimenti inaspettati creati dall’autore? Dov’è il finale necessario ma imprevedibile?
Da nessuna parte, in nessuno dei tre casi.
Certo, c’è il racconto della storia di Dostoesvskij, ci sono le sue peripezie e i suoi patimenti, però non sono descritti sotto forma di romanzo, bensì in chiave trattatistica: divulgativa, pamphlettistica, paradigmatica. Gli elementi più strettamente romanzeschi sono dati dagli aneddoti personali e familiari che l’autore intercala tra un capitolo e l’altro. Al punto da far sorgere una domanda: un romanzo che abbia come argomento altri romanzi è a sua volta un romanzo? La risposta implica una sfida alla logica (e, a quella formale in primis!), sembra quasi tratta da un paradosso russelliano.
Un insieme di elementi esistenti è a sua volta un elemento esistente, appartiene a se stesso?
In quel caso la risposta è no: un insieme non appartiene necessariamente ai propri elementi; anzi, di solito non lo fa mai, come disse una volta Wittgenstein.
E quindi, pur con tutti gli sforzi, il romanzo che parla di un romanziere che ha scritto romanzi non riuscirebbe ad acquisire lo statuto del romanzo.
Ma questo statuto esiste?
Chi ne dubiti, e chi voglia solo leggere un libro senza fare metafisica dovrà necessariamente annettere il Nori, e la sua opera, nel senno qui in discorso.
Ma dovrà pur convenire che tale ammissione risulti quantomeno controversa.
Il libro delle case

Oppure, prendiamo “Il libro delle case” di Andrea Bajani: qui ogni capitolo è una sfida alla memoria del lettore, e alla sua pazienza: abbiamo cinque o sei racconti temporalmente separati, ma in qualche modo collegati, che vengono parcellizzati e poi polverizzati, e poi sparpagliati caoticamente nel testo in modo da rendere praticamente impossibile seguirli in maniera coerente e diretta (a meno di non voler prendere appunti).
Un po’ come provare a ricostruire il sapore dell’uovo all’interno di una parmigiana di melanzane (operazione complicatissima, e di elevata intensità esperenziale, al punto da essere addirittura bandita in alcune latitudini).
Il lettore che voglia semplicemente sapere come-una-storia-andrà-a-finire troverà qui innumerevoli ostacoli al proprio percorso. Anzi, il romanzo sembra costruito appositamente per favorire l’indugio, lo smarrimento, lo straniamento rispetto alle vicende descritte, che paiono quasi degli espedienti per sganciarsi dal racconto e dissolversi nella parola per la parola, nella descrizione per la descrizione, nella topica della distopia.
L’esasperazione strutturale dell’intreccio, con continuo sovrapporsi di episodi nel tempo, sembra costruita apposta per distruggere la fruizione e l’apprensione della fabula.
Insomma, potremmo concludere: dove c’è troppa fabula sfugge l’intreccio (come in Nori), e dove c’è troppo intreccio muore la fabula (come in Bajani).
Ma anche al di là di questi casi estremi e queste due estreme tensioni (Bajani verso la poesia, Nori verso la saggistica), la ricerca del racconto non è sempre agevole (e talvolta affatto), neanche nelle altre tre opere in scrutinio.
La felicità degli altri

Nel novero restante, infatti, abbiamo altri due tentativi di nebulizzazione semantica, dati dai romanzi di Pellegrino e Malaguti.
La prima, Carmen Pellegrino con “La felicità degli altri”, propone un racconto che sembra un po’ un diario di viaggio, e un po’ un memorandum clinico di un soggetto in perenne autoanalisi psichiatrica. L’elemento narrativo viene sempre costantemente minacciato dall’incombere di un didascalismo scientista che erode progressivamente ogni tentativo di sospensione dell’incredulità. Al punto che, anche in questo caso, la storia descritta diventa al tempo stesso un pretesto. E segnatamente, un pretesto per inanellare una serie di riflessioni razionalistiche sull’irrazionalità del mondo, dell’anima e dell’io. Sovente indulgendo in un accademismo consolatorio, come se fosse questo l’unico viatico possibile e giusto per accompagnare le proiezioni degli episodi narrati nella psicologia dei personaggi (e viceversa, ovviamente).
Il continuo basculare tra il particolare (della storia) e l’astratto (della riflessione generalizzante che l’accompagna) è la cifra del testo. E la sua peculiarità sembra proprio quella di voler tentare di esplorare una nuova frontiera dell’esistenzialismo, quella che vede nel supporto della razionalità, della scienza, della teoria, dei modelli rassicuranti, insomma in tutto questo armamentario: un approccio per spiegare la realtà, ma allo stesso tempo per poterla modificare, correggere, migliorare. La ragione come farmacon, come strumento per guarire traumi gravissimi, e tentare una disperata quadratura: tra il senso di realtà e la realtà dei sensi. L’ignoto viene continuamente categorizzato, analizzato, concettualizzato, come se fosse eternamente disponibile al disvelamento. La bibliografia presente alla fine del libro (già!), svela l’intento (peraltro malcelato) dell’autrice, e il suo monito subliminale: badate che queste non sono sciocchezze, ci sono fior di pensatori che hanno teorizzato le tesi che ho spalmato tra un’azione e un’altra nei capitoli del libro.
E poi, c’è un cappelletto finale nel quale l’autrice espone anche una personalissima recensione della propria opera, e ci comunica che quello che abbiamo appena letto sarebbe un romanzo costruito “per sottrazione” (qualunque cosa voglia significare: non c’è romanziere che non affermi di aver sottratto, anche mentre accumulava).
L’operazione sembra, anche in questo caso sperimentale: di solito sono i critici a rivelare le referenze di un racconto, non è chiaro perchè l’autore debba semplificare loro il lavoro, o guastare il gioco.
Se l’acqua ride

In un qualche modo anche Paolo Malaguti, con “Se l’acqua ride”, partecipa a questo involontario festival della complicazione assimilativa; però non lo fa attraverso l’intreccio esasperato o l’astrazione tematica, bensì mediante una precisa scelta lessicale.
Il suo romanzo, per altro verso, è molto più tradizionale e canonico degli altri in gara; la sua descrizione dei travagli epici dei marinai del Po non può che evocare un riferimento classico della nostra letteratura. Barche, acque, correnti, ancore, remi, timoni, fasciami, beccheggi e rollii, evocano senza dubbio un paesaggio verghiamo (il traslato dal mare, al fiume lascia immutato l’elemento: l’acqua).
Ma la storia è molto meno angosciosa, e demistificante: non c’è alcun dramma, alcun eroismo antifatalista, alcun elemento insoverchiabile contro il quale costruire il proprio progetto di vita. Eppoi, la soggettiva non è puntata sul fallimento, ma sullo scampato pericolo; il naufragio lo compiono gli altri (i vecchi, i nonni).
Non c’è alcuna lotta impari da compere per la sopravvivenza. Il benessere materiale è a portata di mano, e richiede solo un atto di adesione incondizionata, e non uno sforzo eroico.
I tempi sono cambiati, la vita del barcaro resterà un ricordo, un’infantile arcadia, un sussulto lirico. Ma questa pratica millenaria, questa vita senza tempo, regolata dal vento, dalla corrente, dal fiume, dalla natura, insomma questo mondo è destinato per sempre a scomparire in una oleografica riproduzione museale. La cultura ha vinto sulla natura, l’artificio sulla spontaneità, la comodità sulla fatica. E il nostro protagonista, sia pure un po’ a malincuore, capisce bene da che parte stare; e alla barca preferisce la Vespa.
E qual è allora l’elemento obnubilante del romanzo? Perbacco: la sua lingua. Il suo dovizioso interporre dialoghi in dialetto padano (tra il veneto e l’emiliano), e descrizioni in italiano, sia pure con diffuso utilizzo di terminologie idiomatiche. Per cui tra il richiamo lessicale e il diretto fluire delle espressioni vernacolari, il lettore è indotto in confusione; e gli sembra di leggere un testo scritto in due lingue diverse, mescolate insieme, provando all’inizio un po’ di difficoltà. Ma poi si lascia abbandonare, e volentieri, allo sciabordio dei suoni di quelle parole, che costituiscono l’esperienza più forte del racconto. Per quanto, anche qui, il testo è spesso intercalato da didascalismi e esplicazioni (se non proprio da “spiegoni”) che risultano talvolta un po’ frenanti. E si capisce che tutte queste cautele sono state usate per salvaguardare la comprensibilità di quel mondo; un mondo che non è poi tanto distante da noi nel tempo e nello spazio, quanto ormai sideralmente lontano dal nostro vissuto, e dal nostro immaginario.
E così, capire come andrà a finire il racconto si trasforma in un dettaglio tutto sommato secondario, quanto prevedibile: sappiamo bene, infatti, come siamo diventati, e cos’è diventata l’Italia dopo gli anni sessanta. Quello che ci sfugge, probabilmente, è quello che abbiamo perso. E in questo l’autore offre un contributo; non sempre immodesto, ma lo offre.
Siamo quindi arrivati alla fine.
L’acqua del lago non è mai dolce

Indovinate un po’, qual è stato l’unico romanzo senza soluzioni di continuità nella propria fruizione, che non deviava dalla propria linearità, che non giocava con improbabili chirurgie e rimescolamenti dell’intreccio, che non straniava con il linguaggio o con l’allegoria, che non proponeva riflessioni inusitate sull’esistenza e il mondo, che non aveva come riferimenti le gigantesche manifestazioni dello spirito umano?
Sì, risposta esatta: era proprio quello che ha vinto.
Parliamo del romanzo di Giulia Caminito, “L’acqua del lago non è mai dolce”.
Il racconto è ricercatamente progressivo, scorrevole, antiestetico, ammiccante, terribilmente pop. Proprio la sua chiave pop (artigianalmente pop) sembra la caratterizzazione più forte.
Il personaggio si sente diverso dagli altri e vorrebbe essere uguale ai propri coetanei. Però, osservando la storia da un altro livello, il lettore non riesce a comprendere se questa tensione (sempre interrotta e minacciata) verso un palingenetico statuto di “normalità” (che in fondo, corrisponde a quello di un piccolo consumatore provinciale) sia un modo per celebrare o per contestare quell’universo di plastica verso cui la nostra disperatamente guada.
Non si capisce, in fondo, se quel desiderio esistenziale di mangiare da Mac Donald (proprio così), che nella storia viene frustrato fino al parossismo, trovi biasimo o encomio nel racconto dell’autrice.
Quel che è certo è che il tentativo di esaltare la parabola morale della protagonista si infrange, alla fine, su una storia che risulta inconcludente: senza mutamento di status, senza soluzione di crisi, senza ristabilimento di quiete.
Verrebbe da prendere partito per la tesi di una mitopoietica critica allo stato di cose presenti.
Ma è proprio così?
Perché il punto è che romanzo contiene delle incontrovertibili manifestazioni di affetto (persino straziante!) per un modello di vita che sembra tratto direttamente da un talk show pomeridiano di una tv commerciale. E questo lascia esterrefatti, annichiliti, straniti fino al punto da pensare che forse sia uno scherzo, un paradosso, un esercizio.
Eppure no, non è così; e questo racconto è altro che una variante al famoso tema dei mercanti berberi (che la sapevano molto lunga in tema di inganni). “Mi dici che vai a Fez.Ora, se dici che vai a Fez, ciò significa che non ci vai. Ma io so che vai a Fez. Perché mi menti, tu vai veramente a Fez!” (Borges ne propose una variante dove al posto di Fez c’era Sebastopoli).
Resta il fatto che la Caminito proponeva, come detto, il racconto che tra tutti risultava più lineare (al punto da smarrirsi nella propria monodirezionalità), meno intrecciato (anzi, quasi del tutto privo di prolessi e analessi), stilisticamente più elementare (con citazioni tratte dalle canzoni di Gianna Nannini e di Malika Ayanne), topologicamente più prevedibile (Roma, e il resto del mondo come sua eterna provincia, o periferia), tematicamente misero (un lieto fine che non allieta).
Eppure la vincitrice è stata lei; sia pure di misura; e forse non è un caso che un premio così legato al mondo editoriale sia stato conferito all’opera che tra tutte dimostrava di essere la più ordinaria, la più ortodossa, la più prevedibile.
In altre parole (possiamo dirlo? Ma sì, tanto c’è chi lo prende persino come un complimento): la più commerciale.
La parabola dell’eroina triste è sempre una geniale trovata (non sempre originale), e amica di un buon successo editoriale.
La vita e la morte
Ecco, la traccia comune tra tutti i finalisti del Campiello, se proprio vogliamo trovare un punto mediano dal punto di vista semantico, è il biografismo; un debordante biografismo.
Sembra che non si riesca a fare a meno di seguire la moda, e la moda oggi impone: autofinzione (si può dire tranquillamente in italiano, ma se lo dici in inglese qualcuno pensa a un soggetto pronto per la televisione).
Accanto a questo elemento se ne accompagna un altro: un uso metodico dell’elemento morte all’interno della storia.
Partiamo da quest’ultimo: sembra che ogni romanzo debba avere almeno un morto per riuscire ad avere un senso di realismo. Ed è estremamente curioso: l’uso dell’assenza per evocare una presenza. Sia come sia, in ognuno di questi cinque finalisti c’è almeno un personaggio, o un amico, o parente, o amante, o amato che ad un certo punto muore.
La sensazione è quella di un’iniezione di adrenalina necessaria per resuscitare il paziente da un collasso nervoso al quale sarebbe altrimenti destinato; ogni tanto, così, come una scarica elettrica: fate morire qualcuno e il vostro racconto sembrerà più vivo. Con buona pace di ogni paradosso.
Dovrà pur esserci una morale in questa contraddizione.
Passando, poi, dalla morte alla vita, come muovendoci su un binario semiotico (che in realtà dovrebbe essere quadrato) possiamo osservare altre analogie trasversali.
Leggendo questi cinque finalisti sembra di arguire che le giurie letterarie apprezzino, ora, soprattutto, il romanzo monosoggettivo, o comunque focalizzato pressoché esclusivamente su un solo personaggio (vabbè, diciamolo: l’auto-fiction!). Al punto da far sorgere il sospetto che la nostra sia l’epoca dei romanzi di formazione (anche se non si capisce bene verso quale forma si verrebbe formati).
In nessuno dei magnifici cinque sembra esserci spazio per un’altra storia rispetto a quella del protagonista, non c’è un antisoggetto, non c’è più un cattivo, non c’è nessun “altro” rispetto al nostro eroe, che ne minacci lo scranno narrativo: solo deuteragonisti, adiuvanti, correi.
Il protagonista è il dittatore assoluto del racconto, rispetto al quale ogni “altro”, diventa semplicemente un complemento del suo ambiente, orbato del diritto ad avere una autonoma visione del mondo. Indegno di essere scandagliato, dal proprio alieno angolo visuale.
Non c’è un secondo, o un terzo racconto, rispetto al quale far scontrare o incontrare o incrociare il racconto principale.
C’è solo la continua progressione del racconto del protagonista, che come una ruspa travolge tutto quanto sia d’intralcio alla propria monomania.
Non è forse un caso che – a parte Malaguti – tutti i romanzi siano scritti addirittura in prima persona, (ma peraltro, lo stesso Malaguti tiene il focus ben concentrato su un solo attore).
E non è neanche un caso che (a parte Malaguti, per evidenti ragioni anagrafiche) tutti i racconti siano, o abbiano, delle proiezioni autobiografiche dell’autore nel proprio testo. O quantomeno, le lascino supporre.
È scomparsa la polivocità?
Può darsi; e può darsi che questo sia il vero segno dei tempi: la autistica, solipsistica, autoreferenziale bolla relazionale nella quale viene intrappolato l’uomo socialmediale parrebbe aver trovato, qui, finalmente un ricasco: la nuova forma del romanzo italiano.
Univoco, autarchico, infratestuale. Intrappolato nella solitudine della propria condizione di eterno incompreso, e quindi di eternamente incomprensibile.
Che relazione ha il protagonista del romanzo moderno rispetto alla realtà in cui è calato? Smarrimento, si direbbe; il nostro personaggio-protagonista è talmente smarrito da non essere neanche in grado di spiegare in maniera chiara, (ma neanche allegorica), o sequenziale (ma neppure paradigmatica) cosa gli stia succedendo, dove si sia smarrito.
E va bene, ma non basta; il lettore giustamente vorrebbe sapere: perché è smarrito il nostro eroe?
Perché (sotto sotto) è affascinato dal bosco nel quale è finito? Oppure (vedi bene) ne è orripilato? Vorrebbe esservi incluso e invece si sente escluso? O vorrebbe esserne escluso e invece si sente invischiato dal mondo in cui razzola?
Prendiamo il Nori (il personaggio Nori, è chiaro; quello che egli stesso crea della propria persona), cosa vorrebbe dirci a proposito di Dostoevskij: che ne condivide l’opera tenendola separata dalla biografia? Oppure no?
In generale (tornando alla cinquina), tutti questi sperimentalismi, queste deviazioni dal canone, queste esasperazioni (o queste esaustazioni) dell’intreccio sembrano un tentativo di sfuggire la domanda, evadere il problema, e nascondere il tema sotto un tappeto fatto di esercizi di stile meno roboanti che rumorosi.
Quello che sappiamo è che il nostro protagonista non ha ancora compreso se è organico o disfuzionale rispetto al contesto che vive, e non fa nessuno sforzo per comprenderlo.
Ma dovrebbe farlo, perché è da questa tensione, dal dualismo tra il protagonista e la sua realtà può emergere il realismo, e nasce il romanzo.
E se non lo fa, alla fine, diventa difficilissimo ricordarsi di lui.