L’attesa del destino eroico ne “Il deserto dei tartari” di Buzzati
di Stefania Romito
Nel libro l’ambiente in cui è immerso Drogo, durante la sua andata alla Fortezza Bastiani, è connotato da un taglio quasi “favolistico”. Buzzati descrive l’ambiente attraverso il realismo ma con elementi fantastici. Il paesaggio sembra essere fuori dal mondo, sebbene sia piuttosto vicino alla città, soltanto un giorno a cavallo. Mentre nella trasposizione filmica, diretta da Valerio Zurlini nel 1976, il registra sceglie di rappresentare questo paesaggio in maniera più realistica rendendolo molto simile a un paesaggio del Medio Oriente. (Le riprese del film si sono svolte in Iran e in Italia). Mentre nel romanzo l’ambientazione è molto simile a un paesaggio montano italiano.
Un altro personaggio chiave è il sergente maggiore Tronk che simboleggia il rigore assoluto. Personaggio che pare vivere esclusivamente per la Fortezza, imprigionato tra le sue assurde leggi. Le regole gerarchiche, e a volte spietate, della vita militare potrebbero simboleggiare le “regole” della società contemporanea alle quali siamo tenuti a sottostare pena l’emarginazione sociale.
Perfino l’aiutante del sarto, al quale Drogo si rivolge per ordinare un nuovo mantello, lo mette in guardia sul fatto che quella Fortezza è una sorta di trappola. Nell’illusione di un “destino eroico” tutti finiscono per rimanervi… inutilmente.
Anche Drogo si farà assalire da questo stato d’animo ma all’inizio appare evidente, molto più nel romanzo che nel film, la sua volontà di voler lasciare dopo quattro mesi dall’arrivo la Fortezza e il suo sollievo nel rendersi conto che mai, a differenza di tutti gli altri, si farà contagiare dalla volontà di rimanere per attendere “il destino eroico”. L’attacco alla Fortezza da parte del nemico, dando quindi un senso alla loro presenza in quel luogo solitario.
Drogo, a questo punto del romanzo, crede ancora di essere immune da questo rischio anche se, inconsapevolmente, inizia ad avvertire la sensazione che anche lui si farà “ingabbiare” dal fascino dell’attesa. Una consapevolezza che non è ancora affiorata alla razionalità, ma che vive già in fondo alla sua anima.
Fra le persone che incontra alla Fortezza ve ne sono alcune che riescono ad andare via (come Lagorio) e altre che rimangono o perché ormai sono alla Fortezza da molti anni (come il sarto e il medico) oppure, come Angustina (Von Hamerling nel film) perché soltanto nell’attesa riescono a dare un significato alla loro esistenza.
Drogo si colloca a metà tra queste due condizioni. In quella fase in cui può ancora illudersi di riuscire a poter andare via (questo aspetto nel film non è così comprensibile). Ma poi quando decide di rimanere, scegliendo di non far firmare il certificato medico al Generale, il motivo, oltre all’onore (e di questo ne avrebbe preso coscienza in un secondo momento) è anche l’abitudine. Quattro mesi gli erano bastati per abituarsi alle regole ferree, ai compagni, al cibo della mensa, ai rumori indesiderati, alle partite a carte con gli amici, alle gite alla locanda.
L’abitudine generata dalla vita nella Fortezza gli appare come una rassicurante protezione. Un’abitudine, però, che avrebbe finito per ingoiarlo in una spirale di giornate scandite dal medesimo ritmo, dove il tempo trascorre lento inesorabile e sempre uguale a se stesso.
La quotidianità e l’abitudinarietà hanno come risvolto negativo la noia. Una condizione alienante che ai suoi giovani occhi assume la forma del fascino dell’ignoto. Perfino le nebbie, che ristagnano a Nord lungo l’orizzonte, appaiono a Drogo illuminanti foschie gonfie di fascinose promesse (qui subentra anche il fascino del luogo di frontiera).
Nella narrazione romanzata, a differenza del film, Buzzati pone l’accento sul cadenzare sempre uguale dei giorni, senza che nulla accada. Ogni giorno è uguale a se stesso. E ogni volta che Drogo contempla il tramonto si immerge nelle sue eroiche fantasie. Quelle speranze che gli tengono il cuore vivo e che lo spronano a proseguire la sua missione alla Fortezza.
Quelle fantasie-speranze che danno un senso alla sua vita:
“E lui ritornava a meditare le eroiche fantasie tante volte costruite nei lunghi turni di guardia e ogni giorno perfezionate con nuovi particolari. In genere pensava a una disperata battaglia impegnata da lui, con pochi uomini, contro innumerevoli forze nemiche; come se quella notte la Ridotta Nuova fosse stata assediata da migliaia di Tartari.
Per giorni e giorni lui resisteva, quasi tutti i compagni erano morti o feriti; un proiettile aveva colpito anche lui, una ferita grave ma non tanto, che gli permetteva di sostenere ancora il comando. Ed ecco le cartucce stanno per finire, lui tenta una sortita alla testa degli ultimi uomini, una benda gli fascia la fronte; e allora finalmente ecco arrivare i rinforzi, il nemico sbandarsi e volgere in fuga, lui cadere sfinito stringendo la sciabola insanguinata.
Qualcuno però lo chiama, «Tenente Drogo, tenente Drogo» chiama, lo scuote per rianimarlo. E lui Drogo apre lentamente gli occhi: il Re, il Re in persona è chinato su di lui e gli dice bravo. Era l’ora delle speranze e lui meditava le eroiche storie che probabilmente non si sarebbero verificate mai, ma che pure servivano a incoraggiare la vita” (da “Il deserto dei Tartari”).