Morte e gelosia in “Anonimo Veneziano” di Giuseppe Berto
di Stefania Romito
Uno dei temi possenti di Anonimo veneziano di Giuseppe Berto è il malessere fisico che si lega al sentimento di morte. La malattia del protagonista si intuisce nel romanzo dagli approfondimenti psicologici della voce narrante, ossia dello scrittore Giuseppe Berto che assolve al ruolo di narratore eterodiegetico, oltre che dall’episodio in cui il protagonista assume alcune pillole all’interno del bar.
Fino alla dichiarazione esplicita di lui, la sua malattia è sottaciuta, rinchiusa nell’omertà di un preventivo pudore.
Nella versione cinematografica, diretta da Enrico Maria Salerno, questa tematica riaffiora in maniera icastica soprattutto nell’episodio, assente nel romanzo, ambientato nel teatro “La Fenice”. Mentre il protagonista simula, smanioso, di dirigere un concerto, viene colto da un improvviso malore che lo spinge a nascondersi dietro le quinte dove si farà una dose di iniezione, mentre l’ex moglie, ignara di tutto, lo attende in sala rimembrando il tempo in cui assisteva ai suoi concerti.
L’aspetto temporale riveste un ruolo decisivo nella storia. Sia nel romanzo che nel film vi è una correlazione tra lo scorrere del tempo e il dissiparsi delle ostilità tra i due. Il ritornare nei luoghi del loro passato alimenta i ricordi che manifestano un sentimento ancora pulsante.
Il primo vitale passaggio, che traccia un avvicinamento tra i due, è la visita alla casa dove lui viveva da ragazzo, depositaria e testimone dei loro momenti d’amore. Nella trasposizione filmica vi è un suggestivo passaggio temporale che viene rappresentato dall’apertura della finestra, nel tempo passato, su i due che, nel presente, sostano nella piazza sottostante. Una connessione atemporale, frutto del geniale estro di Enrico Maria Salerno, che contribuisce a proiettare lo spettatore in una dimensione in cui lo spazio si frappone alla memoria annullando il tempo.
Nella versione narrativa, la piazza diviene palcoscenico del primo bacio post separazione. Spartiacque di un prima che confluisce in un dopo in cui i dissapori si dissolvono al cospetto della magia del ricordo. Ma più i contrasti si dileguano, più riaffiora la gelosia dell’uomo.
«Fai l’amore anche con altri?», chiede lui. «Sono fatti miei», risponde lei. Frase che nel libro sostituisce la provocatoria «Quando mi va lo faccio anche con altri», indicando la volontà di Berto di restituire un ritratto della donna ancor più ribelle nella sua indisponenza.
Nella pellicola cinematografica, il primo bacio è invece collocato nell’incipit di finale. In quella sequenza ad alto struggimento empatico che segna l’apogeo di una lacerazione d’anima che rinviene nella condivisione l’unica via di salvezza, in un dolore inteso come strumento di redenzione.
Ma ritorniamo alla piazza, inconsapevole teatro di memorie sommerse che travolgono i nostri protagonisti sempre più intrappolati tra le corde di un amore che rivendica vita. Un diritto che stride con le parole della donna volte a indicare l’inevitabile caducità del sentimento amoroso, l’effimeratezza della felicità pura che, per sua natura, non può essere eterna. «Era troppo bello per durare». La sua voce malinconica ha sospiri nostalgici che testimoniano una mentalità che palesa una rassegnazione esistenziale che diverge da quella di lui alla ricerca costante dell’istante felice.