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le preoccupazioni di Confindustria nelle valutazioni del Presidente Salvatore Toma sulla vicenda ex Ilva

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“Il Governo ci dica quali risorse intende utilizzare”

TARANTO – Una rosa di ancora potenziali ma realizzabili opportunità si prospettano a breve, al netto delle macroquestioni nazionali e internazionali che investono le imprese (le possibili ripercussioni dei venti di guerra, il caro energia, la gestione del post covid), per l’economia di Taranto e provincia, e Confindustria è pronta a coglierle e a collaborare con gli attori territoriali per poterle capitalizzare ai fini di possibili ricadute positive sul territorio. Parliamo della cantierizzazione di progetti rivenienti dal PNRR e dal Contratto Istituzionale di Sviluppo, dei segnali che spingono verso il rafforzamento del comparto turistico, dell’evoluzione dello scalo portuale sempre più integrato col tessuto cittadino e dei progetti di nuova cantieristica, delle novità sul fronte dello stabilimento Arsenale e della Zes Jonica, in dirittura di rilancio. Tanti contenitori in gran parte da riempire ma che godono già di regie e di risorse, ma che necessitano di forti impulsi e in molti casi di un lavoro di squadra al quale la “nuova” Confindustria jonica non mancherà di portare il suo apporto di responsabilità, contenuti e buone pratiche, puntando soprattutto sull’innovazione e sulla creazione e incentivazione della cultura d’impresa.

La nuova squadra di via Dario Lupo, con alla guida il Presidente Salvatore Toma, guarda al futuro con la logica del bicchiere mezzo pieno ma – ancor di più a seguito di un recente confronto con le aziende dell’indotto di Taranto e provincia – non nasconde le preoccupazioni legate allo storico comparto dell’acciaio: il più grande ma anche il più complesso, che oggi vive l’ennesima situazione di empasse.

Da una parte, infatti, ci sono il Governo e Adi, Acciaierie d’Italia, che discutono circa il piano industriale che dovrebbe reggere le sorti dell’azienda da qui ai prossimi anni, ma nulla trapela in merito alle linee essenziali: produzione, occupazione, processi di decarbonizzazione, risorse e tempistiche.

Dall’altra parte, c’è la città, ci sono i dipendenti e ci sono le aziende che, ferme restando le crisi di liquidità di cui continuano a soffrire da anni, (prima per i crediti mai corrisposti da Ilva in AS e poi per l’accumularsi di ritardi nella gestione corrente dei pagamenti, sia pure con situazioni diversificate), si interrogano sul loro futuro più imminente.

Ma si tratta di interrogativi che vanno avanti da poco meno di un anno, e aspettative che hanno preso corpo a partire dalla nascita di Acciaierie d’Italia, il 14 aprile scorso, quando, a seguito di  un accordo fra Invitalia e Arcelor Mittal, lo Stato investì 400 milioni di euro nel capitale sociale di Am InvestCo Italy. Da allora, le aziende dell’indotto hanno continuato, pur nelle ovvie incertezze che porta con sé ogni trasformazione, ad assicurare la continuità del loro lavoro. Lo avevano fatto, peraltro, in ogni fase, anche critica – e ce ne sono state tante – della grande industria, da dieci anni a questa parte. Stanno continuando a farlo, ma gli interrogativi che si susseguono, da parte di questi imprenditori di prima, seconda e terza generazione, aumentano ogni giorno che passa. “Prima fra tutte – afferma il Presidente Salvatore Toma – pesa l’incognita delle risorse: come farà Adi a sostenere i costi di un piano che, stando alle previsioni, potrebbe costare fino a 4,7 miliardi di euro? Al momento abbiamo contezza, inoltre, che Invitalia non abbia corrisposto i 705 milioni necessari per acquisire le quote societarie al 60%, anche perché è improbabile, come peraltro confermato nelle ultime ore dallo stesso Presidente Bernabè, che questo passaggio possa realmente realizzarsi entro maggio prossimo, come previsto. Abbiamo pertanto la netta impressione di trovarci di fronte alla classica coperta troppo corta, tirata qua e là all’occorrenza, laddove le priorità da soddisfare sono invece molteplici”.

La vicenda è quindi ancora complicata e permangono troppe incognite, che, oltre ad essere legate alla questione risorse, attengono anche alla “tenuta” complessiva del piano in termini di produzione, occupazione e sostenibilità ambientale. Variabili strettamente connesse e sulle quali al momento esistono solo scenari, in attesa che il piano venga palesato nei suoi dettagli, come si auspica possa avvenire in questi giorni.

Ed è questo un aspetto su cui non solo le aziende dell’indotto, ma l’intera Confindustria esprime le più forti perplessità.

“Abbiamo preso atto più volte – prosegue Toma – della volontà di Adi di continuare ad investire su Taranto con una fabbrica competitiva e sostenibile, ma la realtà ci riporta ad una situazione simile a quella in cui i giocatori in campo attendono l’uno la mossa dell’altro prima di entrare in partita. E’ evidente che mancano le risorse necessarie, oltre quelle già investite dall’azienda nello stabilimento di Taranto. E allora ci rivolgiamo al Governo, affinché dica a chiare lettere quali sono le prospettive, cosa si intende fare dello stabilimento e dell’immenso capitale umano che vi opera e quali sono, se ci sono, i progetti per Taranto.

Il Governo ci dica quali risorse intende utilizzare: ma occorre saperlo al più presto, perché la posta in gioco è altissima e la tensione fra le imprese è alle stelle.

Noi abbiamo auspicato, fin dall’insediamento mio e della nuova squadra – prosegue Toma –  che si avviasse finalmente un serio processo di ambientalizzazione e ammodernamento della fabbrica che potesse renderla ancora più performante e competitiva, perché è questo che le imprese ci chiedono da tempo. Abbiamo, in questo senso, richiesto più volte il nostro coinvolgimento nei tavoli di discussione, senza rivendicare protagonismi ma processi di condivisione, ma anche questa istanza non ha avuto risposte.  E’ un passaggio – quello del rilancio della fabbrica in chiave ecosostenibile – che ci metterebbe nelle condizioni di poter finalmente programmare una  seria e reale ripresa per la città, ovvero il potenziamento, assieme a tutti gli attori istituzionali ed economici in campo, di tutti quei segmenti produttivi finora non sufficientemente sviluppati. Certo, i progetti di sviluppo alternativo ci sono e viaggiano autonomamente, ma non possiamo ragionare di sviluppo tralasciando una presenza così importante, dietro la quale ci sono migliaia di lavoratori, famiglie, imprese. I tempi lunghi ipotizzati da Bernabè sono purtroppo una conferma ai nostri timori: abbiamo alle spalle anni di stop and go, frenate e false ripartenze. E non vorremmo ritrovarci, di qui a breve, con un  nulla di fatto che ci riporta al 2012, quando il futuro era sparito dall’orizzonte e la città, sul fronte socio-economico, era diventata una bomba pronta ad esplodere. Sarebbe un fallimento: non solo della città, ma dell’intero Sistema Paese, che nessuno di noi, dopo dieci anni di sofferenze, si può permettere”.


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Redazione Oraquadra

La redazione.

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