I valdesiani e Jacopo Bonfadio
di Stefania Romito
Jacopo Bonfadio, illustre umanista del Cinquecento, compì gli studi a Verona e a Padova prese gli ordini minori. Della sua vita non si sa molto: la maggior parte delle informazioni le possiamo ricavare dalle lettere che rappresentano dei modelli di buon volgare, dalle quali emerge uno stile raffinato ed elegante, tanto da essere pubblicate nelle più importanti raccolte epistolari del Cinquecento e del Settecento.
La sua vita fu contrassegnata da una pluralità di esperienze. A partire dal 1532 visse tra Roma e Napoli al servizio di eminenti personaggi ecclesiastici, quali il cardinale Merino, il cardinal Ghinucci e il vescovo di Conza, in qualità di segretario. A questo periodo risalgono alcune sue amicizie con insigni letterati tra cui Nicolò Franco, Paolo Manuzio e Marcantonio Flaminio, destinato ad avere un ruolo di primo piano nella storia religiosa di quegli anni e che divenne uno degli uomini più importanti del gruppo dei valdesiani, che si costituì a Napoli, intorno all’esule spagnolo Juan Valdés, a partire dal 1540.
L’arrivo di Flaminio nella città partenopea, in un periodo in cui si avviava la nota discussione dottrinale sulla questione del libero arbitrio e della predestinazione, sembra aver costituito una premessa dell’improvvisa confluenza che si realizzò intorno a lui e al Valdés, all’inizio del 1540, in occasione della predicazione quaresimale di Bernardino Ochino; una confluenza che doveva di certo rinviare a contatti precedenti, relazioni personali e a una cauta diffusione di libri e dottrine che solo in parte i documenti consentono di ricostruire.
Al gruppo, del quale facevano parte anche alcuni nobili napoletani seguaci del Valdés, si affiancano ben presto Jacopo Bonfadio, il Soranzo, appena trasferitosi a Roma al seguito di Bembo, il calabrese Apollonio Merenda e il protonotario apostolico Pietro Carnesecchi, iniziato alla dottrina religiosa dell’esule spagnolo dall’amico Flaminio e dalla nobildonna Giulia Gonzaga, che si era trasferita a Napoli nel 1535. E saranno proprio le conversazioni con la celebre nobildonna a ispirare a Valdés l’Alfabeto cristiano che rappresenta una delle espressioni più significative della spiritualità valdesiana. Una religiosità che privilegia la dimensione interiore rispetto alle apparenze tanto da rendere indifferenti tutte le pratiche considerate fondamentali dal cattolicesimo romano.
Benché non vi fosse alcuna traccia di polemica nei confronti del cattolicesimo, il messaggio religioso dello spagnolo apparve alle autorità inquisitoriali come una pericolosa eresia in parte coincidente con il luteranesimo, soprattutto per quel che riguardava la dottrina della giustificazione per la sola fede.
Del gruppo dei valdesiani, che inizialmente si configurò per lo più come polo di aggregazione di esperienze religiose fino a quel momento sviluppate altrove (come si racconta nel libro di Stefania Romito “Il poeta eretico” – Asino Rosso Editore), fecero parte personaggi di primo piano per cultura e rango sociale che nella spiritualità valdesiana trovarono sbocco a profonde inquietudini personali ma anche risposte a problemi di carattere generale.