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“Cent’anni di Pasolini” di Luca Bovino

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Quest’anno Pier Paolo Pasolini avrebbe compiuto cento anni. È curioso come oggi vada di moda festeggiare i compleanni mancati, mentre una volta le ricorrenze erano dedicate soprattutto ai decessi riusciti, ricordava Paolo Fabbri. Forse dipende anche dal fatto che ogni pretesto può andare bene per ripescare dall’abisso dell’oblio persone, circostanze, opere, epoche che ci facciano dimenticare un presente triste, o che, anzi, ci portino a vivere il presente come triste, avvolti nel vortice delle rimbembranze di cose inesistenti. Le mamme dell’idealismo non hanno mai smesso di essere incinte, del resto.

Però, Pasolini.

Com’è possibile collocare la sua figura nel panorama della nostra storia patria, quale sarebbe la sua sede congeniale nel pantheon della cultura italiana: poeta? Narratore? Giornalista? Saggista? Cineasta? Regista? Drammaturgo? Sceneggiatore? Politico?

Quale sarebbe il genere rispetto al quale egli sarebbe specie, anzi speciale?

La sua continua fuga, da un registro espressivo ad un altro, lo rende camaleontico, ineffabile, proteiforme. E forse anche in questo sta la sua grandezza: nel riuscire a essere sempre contraddittorio. Eccellentemente (ma si potrà dire?) contraddittorio. Ogni sua fase, ogni suo guizzo, ogni suo slancio erano nel segno di una profonda e lacerante antinomia. Che talvolta lo rendeva insopportabile, con una parabola spesso rimbalzante nella celebre diade di Alberto Arbasino: tra il venerabile maestro e il solito stronzo.

Prendiamo la sua cifra stilistica in campo letterario. Era stile, quello di Pasolini? I suoi romanzi d’esordio erano scritti in romanesco affettato e sguaiato, pieni di parolacce e inutili cadute di registro. Le sue poesie erano scritte come dei comunicati dell’ANSA (qualcuno ironizzò, più che “poesie in forma di rosa” erano poesie in forma di prosa). I suoi articoli giornalistici erano collezioni impressionistiche di asserzioni nelle quali mancava quasi del tutto ogni forma di sviluppo argomentativo dei concetti. Il suo “j’accuse” contro la classe dirigente italiana aveva più il sapore di un monito inquisitorio, che non la presa d’atto di una coscienza civile: “io so, ma non ho le prove”, è semplicemente una bestemmia contro lo stato di diritto. Alzi la mano chi ritenga davvero amorevole e progressista questo modo di formulare giudizi. (Eppure i principi morali spesso sono fatti per costruire petizioni circolari, più che per evoluzioni progressive: si evocano ma non si dimostrano).

Qualcuno, Alfonso Berardinelli per esempio, lo ritenne un “grande scrittore mancato”, contrappuntandolo in questo a Italo Calvino, descritto invece come un “perfetto scrittore minore”. Due panini fatti con aggettivi piuttosto singolari nei quali inserire il sostantivo. Calvino avrebbe nascosto la vita dietro l’espressione, Pasolini avrebbe fatto il contrario, nascondendo la cifra stilistica dietro la propria vita.

Un suo poetico biografo, Rossano Astremo, ricostruì il suo passaggio dalla penna alla macchina da presa come una fuga dalla polisemia, che Pasolini ad un certo punto ritenne insopportabile. E quindi la sua emigrazione verso l’immagine in movimento sarebbe un tentativo di conferire maggiore coerenza e univocità al suo pensiero.

Ma andò così?

I suoi film erano deliberatamente spogli, apparentemente improvvisati, con attori inesperti. Il suo anelito era un asintoto della forma verso la realtà: una tendenziale proiezione, destinata come tutte le proiezioni a indicare un approdo senza mai potervi giungere. Una frustrazione deliberata. Il suo neorealismo era talmente crudo da sembrare quasi affettato, complice la scelta per certi versi straniante, di mettere in scena ragazzotti borgatari, accanto a monumenti dell’arte recitativa, però doppiando rigorosamente le loro voci.

Continuo a sfogliare il dizionario dei sinonimi dell’aggettivo “pasoliniano”, e non riesco a trovare un’accezione unitaria, o comunque monotematica.

Proviamo a circoscriverla a seconda dei generi trattati dal nostro.

Prendiamo il registra; pasoliniano è un tipo di cinema rozzo, fatto di povertà di mezzi, arcaico. Dove l’arcaismo è spesso protagonista: la trilogia dedicata al classicismo greco, come “Edipo Re”, e “Medea”. Oppure al medioevo letterario come il “Decamerone” o i “Racconti di Canterbury”. Facce grottesche che si aggirano tra case spoglie ruminando pratiche belluine e animalesche attitudini. Poi la virata verso l’attualità, “Teorema” e “Salò”, “Uccellacci e Uccellini” O ancora, il “Vangelo secondo Matteo”, il cinema morale, il messaggio politico, prima ancora che quello estetico. Ma qual era questo messaggio? L’estetica dell’antiestetica? Era già questo il tema, oppure c’era dell’altro, che a livello subliminale doveva far presa verso lo spettatore? La sacralità dell’eresia?

Prendiamo il tema politico, allora.

Il suo rapporto controverso con il partito comunista, da cui ebbe molto e grazie al quale ottenne un posto nel circuito culturale degli anni cinquanta che forse difficilmente avrebbe ottenuto altrimenti. Ma forse nessun intellettuale avrebbe potuto avere chance di visibilità senza un’entratura politico-editoriale qualsivoglia, all’epoca, come probabilmente anche oggi.

Il partito, quindi; che poi lui condannò aspramente per l’autoritaria deriva antiumanitaria che stava assumendo il socialismo reale nei paesi in cui aveva preso il potere. Stiamo trasformando il sogno della liberazione dell’uomo nell’incubo della sua schiavitù. Eppure, era un grande ammiratore della sua federazione giovanile, la stessa che avrebbe fatto da fucina per la classe dirigente della sinistra italiana della seconda repubblica. Tutt’altro che immemorabile: dal sostegno ai rivoluzionari sudamericani, alle procaccerie milionarie per la vendita delle armi in Colombia. Venivano da quella mitica federazione, questi, altri campioni.

P.P.P. restò sempre un grande ammiratore di Gramsci e del gramscismo, cui dedicò una celebre elegia. Eppoi, ebbe una incredibile “svolta” liberale: la sua adesione al partito radicale, da marxista e da comunista, dichiarò nella relazione al congresso del 1975, qualche giorno prima della sua tragica morte.

Quindi il Pasolini critico dei costumi, l’anticapitalista, l’antimodernista. Il savonarolesco monitore contro il nichilismo contemporaneo del mercato e della società dei consumi. Eppure, i suoi film erano cofinanziati dalle più grandi produzioni italiane, i suoi articoli pubblicati sui giornali dei petrolieri, i suoi libri stampati dai primari editori dello stivale (in buona parte massoni e golpisti). La sua critica del mercato affidava al mercato la promozione e la diffusione della sua critica, non c’era coscienza di alcuna alienazione in questo suo materialismo dialettico.

Fu celebre la sua presa di posizione a favore dei poliziotti negli scontri del 1968 con gli studenti universitari di Valle Giulia; e si trattava di una difesa che aveva il coraggio di una scelta di classe: gli studenti erano i figli della borghesia, mentre i poliziotti figli del popolo. Ma chi stava dalla parte giusta, in quell’occasione, chi criticava il sistema o chi lo difendeva? O era semplicemente una questione genealogica, per cui le colpe dei padri, come nella migliore tragedia greca, devono sempre ricadere sui figli?

Probabilmente, però, più che la giustificazione di classe in chiave politica, era proprio la smisurata ammirazione affettuosa che aveva nei confronti delle classi più umili la chiave della sua controversa idiosincrasia sessantottina.

Ma qual era il suo rapporto con le periferie, con le plebi povere dell’Italia postbellica, con il mondo della povertà e dell’ignoranza: era ammirazione, condanna, solidarietà?

La sua immersione borgatara che costrutto aveva? L’intellettuale, raffinato, letterato e benestante Pasolini che cosa poteva cercare tra i sozzi e scalzi monelli delle baracche romane? Certo, c’era anche un compiacimento sensuale nell’accompagnarsi a quelle giovani corporeità. Ma era solo di questo che si trattava? (mi rendo conto solo ora che in questo brano sto mettendo troppi punti interrogativi, la cosa credo inizi a spazientire il lettore ideale che c’è in me, prometto che ne farò grazia d’ora in poi).

Ecco, forse in questo rapporto con i poveri e la povertà c’era la sua contraddizione più forte, più grave, più fragorosa. Lo ho notato leggendo un saggio di Matteo Marchesini, in “Casa di Carte”: la ricerca dell’innocenza da parte dell’intellettuale non più innocente. Quell’innocenza che portava il Riccetto (protagonista di “Ragazzi di vita”) a gettarsi nel fiume rischiando la vita pur di salvare un piccolo cagnetto smarritosi tra i flutti. E per l’intellettuale ormai corroso dal tempo e dal suo secolo putrido, quella gioventù è la prima forma di temporanea onestà ancora presente nell’umanità. Ma è temporanea, appunto. Nell’ultima parte del suo romanzo, quello stesso ragazzino che non aveva esitato a rischiare la vita pur di salvare un animaletto, a distanza di tempo, ormai cresciuto, rifiuta di rituffarsi nel gorgo per salvare un amichetto, lasciandolo morire annegato. Ecco, in questa allegoria c’è l’argomento di Pasolini sull’umanità: la purezza dell’uomo è possibile coglierla solo dove ancora non è arrivata la cultura borghese a corrompere gli spiriti con la sua spietatezza, la sua noncuranza, il suo cinismo. Solo tra quelle vesti lacere, quelle case putride, quelle facce sporche, dove il progresso non ha bussato alla porta, e prima ancora che lo faccia, è possibile respirare l’umanità dei sentimenti primordiali, naturali, corporali e morali: di bontà, fratellanza, amore. Ma c’è poco tempo per cogliere quel mondo; l’adolescenza, la giovinezza, la freschezza di quell’età dura poco: il capitalismo come un morbo è pronto ad arrivare e contaminare ogni sentimento, ogni passione, ogni pensiero. E arriva: con la scuola, con la televisione, con i giornali, con la civiltà, con il progresso tecnologico. E l’intellettuale è lì, come uno speleologo, a inzaccherarsi i mocassini nella ricerca dell’ultimo reperto di umanità ancora possibile, tra i ragazzini, ancora inconcussi dalle deformazioni pedagogiche e massmediatiche della società moderna.

Eppure qui, proprio qui c’è la lacerazione più dolorosa di Pasolini. Leggo le parole del Marchesini: la “comunione” che l’intellettuale cercava con la “realtà” più autentica era possibile reperirla solo nel mistero (cito) di una sottoproletaria “vita immemore” appena insediata dal progresso storico. “Ma è pur questo progresso che nonostante tutto auspica il Pasolini comunista”!

Non vide, o non volle vedere però questa aporia. Come non volle rendersi conto che, riprendo sempre l’analisi del critico, “la sua azione di esteta dipende dai mezzi di un’industria culturale che gli assegna come lettori e spettatori i membri dell’odiata classe media”.

E che costruiva per lui pulpiti dai quali poteva lanciare strali contro quel sistema che, invece, finiva per irrobustirsi e ingigantirsi anche grazie a proprio a quell’opera. Anche grazie alla sua opera. Anzi, che aveva trovato in quella sua operosa attività di polemista e critico nuove e inusitate risorse per il proprio mercato.

E in Pasolini la coscienza di questa contraddizione sembrava esserci, e sembrava essere sempre e costantemente presente, al punto che la sua perseveranza sembrava più diabolica (come tutte le perseveranze) che cristiana.

C’era coscienza. Ma c’era anche coscienza d’impotenza della propria coscienza. Forse indolente, compiaciuto, rifluente nell’estetismo rassicurante, nelle macchine da corsa, nelle rassegne mondane, nelle colonnine del Corriere della Sera, nel festival del Cinema di Venezia, nelle estatiche passeggiate africane con Moravia. Vivere l’estetismo borghese al massimo grado, però consapevole del degrado morale cui conduceva quella vita.

Tutto questo lo sapeva, a lo faceva stare male. Come un tossico intossicato della propria stessa dipendenza. Nel rivolgersi a Gramsci, sepolto nel cimitero del Verano, piangeva amare lacrime di crudele ammissione:

del mio paterno stato traditore

-nel pensiero, un’ombra di un’azione-

Mi so ad esso attaccato nel calore

Degli istinti, dell’estetica passione;

attratto da una vita proletaria,

a te anteriore, è per me religione

la sua allegria, non la millenaria

sua lotta: la sua natura, non la sua

coscienza; è forza originaria

dell’uomo, che nell’atto s’è perduta,

a darle l’ebrezza della nostalgia

e una luce poetica: ed altro più

io non so dirne, che non sia giusto ma non sincero, attratto

amore, non accorante simpatia…

Ecco, ancora non abbiamo compreso se sia in noi più forte l’ammirazione per la grandezza di un pensiero in grado di leggere perfettamente la propria decadenza esistenziale, o la condanna per la decadenza di quell’esistenza che non riusciva a tenere il passo gigante della gigantomachia del suo pensiero.

Ma forse non è detto che dobbiamo per forza scegliere noi.

Anzi, non lo dobbiamo affatto.

 

Luca Bovino


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Redazione Oraquadra

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