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Quel luminoso pessimismo sciasciano in “A ciascuno il suo”

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di Stefania Romito

 

La tendenza di voler “mostrare” più che “far intuire” del regista Elio Petri (che diresse nel 1967 la trasposizione filmica di A ciascuno il suo di Leonardo Sciascia) si tradisce in conclusione della storia mediante una rappresentazione piuttosto frettolosa del fidanzamento dell’avvocato Rosello con la cugina Luisa, che lascia parecchie possibilità di interpretazione.

Episodio che nel romanzo si infittisce di tutta una serie di dettagli rivelatori a cui Sciascia attribuisce precipui contenuti. Tra questi vi è la conversazione tra don Luigi, lo zio arciprete, e il notaro che chiarisce il motivo della morte del dottor Roscio. Don Luigi, rivelando al nipote Rosello ciò che aveva scoperto il marito di Luisa, ne aveva di fatto decretato la morte.

Nel film il dialogo è appena accennato così come l’intromissione del terzo personaggio (Zerillo) che affida alla funzione antropologica del gesto, e non della parola, l’atroce rivelazione della drammatica fine di Laurana. Zerillo, nel sorprendersi del fatto che i suoi interlocutori dimostrano di essere all’oscuro di ciò che è accaduto al professore, compie un gesto eloquente che nel film viene appena abbozzato. Quello di avvicinare il dito alla bocca dei due, come fanno le mamme per sondare la crescita dei dentini nei loro figli, a volerli accusare di essere “falsamente” innocenti.

Il gesto. Una importante espressione del pensiero umano, rivelatore di pregnanti significati talvolta più espliciti di qualsiasi comunicazione verbale. Ed è proprio in questo finale, di grande spessore esistenziale e antropologico, che si evince lo straordinario valore di uno scrittore che fa della denuncia un’arma contro il sistema corrotto siciliano. Una denuncia che origina proprio dalla implicita rassegnazione e consapevolezza dei personaggi che qualsiasi tentativo di cambiamento sarebbe vano.

Il pessimismo sciasciano non possiede, tuttavia, un’accezione negativa a differenza di quello verghiano nel quale l’unica via di salvezza è affidata alla provvidenza. Nel descrivere gli aspetti più terrificanti della sua terra, Sciascia ne esalta anche la bellezza. Il suo atteggiamento è quello di un padre che pur redarguendo il figlio non può che continuare ad amarlo.

La grandezza di Sciascia sta nel far leva sull’atteggiamento di sfiducia dell’uomo onesto siciliano rendendo così ancora più infausta la sua condizione esistenziale. Uno scenario di gran lunga più sconfortante e angosciante rispetto a quello raccontato filmicamente, poiché testimonia i danni causati da una deviata struttura sociale in grado di annientare nell’uomo virtuoso non solo la speranza ma anche ogni decisiva iniziativa individuale.

Il Laurana del romanzo tenta di apportare un cambiamento pur sapendo che non vi riuscirà, a differenza del Laurana di Petri al quale viene assegnata una differente concezione e intenzione alla sua condotta. Ad ogni modo, nonostante le divergenti versioni attribuite alla natura del riservato protagonista, il dissacrante giudizio morale a lui riferito (“Era un cretino”), che suggella la scena finale, rimane scolpito nella mente di chi “legge” così come in quella di chi “guarda”.

Non resta che chiedersi a quale delle cinque categorie dell’umanità, indicate ne Il giorno della civetta, il capomafia don Mariano Arena avrebbe ricondotto il povero Laurana. Se tra gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i ruffiani o i quaquaraquà.

 


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Stefania Romito

Stefania Romito è giornalista pubblicista e scrittrice.

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