La discussione tra gli umanisti quattrocenteschi sulla questione della lingua: Bruni e Biondo a confronto
di Stefania Romito
Nel ‘400 si svilupparono alcune discussioni linguistiche. Si confrontarono posizioni differenti sul tema dell’origine dell’italiano e sulla sua dignità. Nemmeno questo dibattito può essere classificato come un vero capitolo della “questione della lingua”, perché il tema primario a cui gli umanisti dedicavano attenzione era il latino. Solo accidentalmente la riflessione sul latino finiva per coinvolgere anche il giudizio sul volgare.
Un’importante questione teorica fu quella sulle condizioni linguistiche dell’antica Roma. Nel 1435 a Firenze si erano contrapposte le tesi dei due umanisti fiorentini, Biondo Flavio e Leonardo Bruni.
Il Bruni sosteneva che il latino classico non era stato usato da tutto il popolo di Roma ma solo dai dotti, perché già nella Roma antica esisteva una differenziazione tra la lingua dei colti e quella degli illetterati.
Il Biondo, al contrario, era del parere che il latino classico fosse stato una lingua omogenea, di uso comune, una lingua adoperata da tutti.
La tesi del Bruni si ricollegava alla concezione medievale, che abbiamo incontrato in Dante, secondo la quale il latino letterario era dotato di grammatica, cioè era regolato con norme precise, mentre la lingua popolare era caratterizzata da variabilità e da forme prive di qualità. La lingua popolare, dunque, risultava molto differente da quella letteraria.
Il Biondo poneva l’accento sul volgare che doveva la propria origine alle invasioni barbariche, le quali avevano fatto morire la civiltà latina. La nascita del volgare era dunque il risultato della contaminazione con elementi impuri, barbari.
Secondo la posizione del Biondo, si doveva riconoscere che l’italiano era una lingua figlia del latino, nata da una contaminazione con elementi barbarici. Si può osservare che la sua tesi sopravvalutava la funzione di tali invasioni, le quali, a giudizio degli studiosi di oggi, non furono un fattore decisivo per la trasformazione de latino, ma solo una concausa che accelerò il processo già in atto.
Inoltre il Biondo arrivò a distinguere tra il comportamento dei Goti e quello dei Longobardi, i primi maggiormente rispettosi della civiltà romana, i secondi più distruttivi.
Questa posizione era diversa da quella sostenuta dal Biondo nel 1435 quando aveva attribuito ai Goti la colpa della crisi istituzionale e linguistica di Roma.
Nella prospettiva umanistica, dunque, l’avvento delle lingue volgari era stato determinato da un evento catastrofico: la rovina della romanità ad opera dei barbari. Secondo gli umanisti e anche per Dante la varietà degli idiomi popolari era vista come una condizione infelice, alla quale si contrapponeva la lingua grammaticale, in particolare il latino dei dotti. Questo ultimo, secondo Dante, era stato il rimedio escogitato per superare i difetti della lingua parlata. Per gli umanisti, che la pensavano come il Biondo, il latino rappresentava una condizione privilegiata, il frutto di una civiltà perduta per sempre.
La tesi del Biondo incontrò grande fortuna, più di quella del Bruni. Bruni aveva parlato di due livelli linguistici diversi, coesistenti nella Roma antica, una lingua bassa e una lingua alta.
Tale tesi si interpretò come se già al tempo del latino fosse esistito una lingua popolare uguale al volgare. La ricostruzione storica che ebbe più fortuna fu quella del Biondo, con l’ossessivo riferimento alle invasioni dei barbari, interpretate come evento catastrofico. Per questo definiremo tale teoria come teoria della catastrofe che fu ripresa diverse volte nel ‘400 e nel ‘500.