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La spiritualità immanente di Berto in Anonimo Veneziano

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di Stefania Romito

 

Un altro tema che assume un importanza fondante, in “Anonimo veneziano” di Giuseppe Berto, è quello della malattia che si lega al sentimento di morte.

La malattia di lui, nel romanzo, si intuisce dagli approfondimenti psicologici della voce narrante (ossia dello scrittore Berto, che assolve al ruolo di narratore eterodiegetico) e anche da un episodio in particolare: quando lui assume delle pillole al bar. Fino alla dichiarazione esplicita, la malattia dell’uomo è piuttosto celata. Mentre nel film (diretto da Enrico Maria Salerno nel 1970) riaffiora in maniera più incisiva soprattutto nell’episodio, che nel romanzo manca, ambientato in teatro, nella magica cornice de La Fenice. Mentre sta simulando di dirigere un concerto, sotto lo guardo ammirato della donna, a un certo punto fugge dietro le quinte per iniettarsi una dose di medicinale. Lei, ignara di tutto, lo aspetta in sala ricordando con nostalgia quando assisteva ai suoi concerti.

A metà film lui, all’improvviso, le confessa di stare per morire. I due si trovano su un ponte. L’uomo sceglie un momento “ironico” per farlo, tant’è che la donna non gli crede e risponde: «Che vuoi dire? Tutti noi dobbiamo morire». Momento in cui si dissipano totalmente le nebbie e ricominciano ad essere una persona sola.

Da questo istante sarà lui a parlare e lei ad ascoltare.

Da notare come nel film ogni tema di dialogo venga abbinato in maniera sapiente a una determinata cornice paesaggistica del tutto intonata al tono dell’emozione (quando parlano della malattia di lui, lo sfondo è una zona dismessa di Venezia, pari a una discarica sulla laguna) quasi come a voler sottolineare il degrado, la lacerazione esistenziale.

Se fino a questo episodio il film è piuttosto fedele al romanzo (o viceversa), da questo frangente in poi le due versioni iniziano a differenziarsi notevolmente. Ci stiamo avvicinando agli attimi più intensi e struggenti della storia.

Nella versione cinematografica, è nella scena a casa di lui, in quel momento di maggior intimità tra i due, che si raggiunge la maggior tensione emotiva di tutto il film (poi ci sarà la scena finale straziante e lacerante). Vi è dolore, passione, struggimento dovuti alla consapevolezza della morte imminente. Riaffiora tutta la sua immanente fragilità: la paura di “avere paura della morte”. Un timore atavico che ha necessità di condividere con lei per poterla annientare o, forse, per poterla accettare.

Nel romanzo il dialogo è meno struggente. L’emozione si avverte nelle parole, ma anche nei silenzi tra una parola e l’altra. Due linguaggi diversi, quello letterario e cinematografico, che si avvalgono di strumenti differenti per trasmettere una medesima emozione. Nel libro, il particolare della lettera indirizzata a lei, che nel film la donna rinviene tra i libri di lui dove aveva scritto che si sarebbe suicidato, non c’è. Questo concetto emerge ugualmente ma in maniera diversa. La donna, sfogliando alcuni libri di lui, ne prende uno nel quale è evidenziata la frase: «Il suicidio come intervento dell’uomo in uno dei due fatti che gli sfuggono, la vita e la morte», di Ottiero Ottieri che corregge la frase dell’Ecclesiaste in cui si afferma che «nessuno può niente sul giorno della morte». Questo è il primo riferimento all’Ecclesiaste che precede il secondo incisivo nel finale di romanzo.

Qualcosa si può (fa notare lui), rivendicando il libero arbitrio. Qui si fa riferimento anche al suicidio di Hamingway che Berto cita nella Prefazione del libro: «Hemingway diceva che uno scrittore, se è abbastanza buono, deve misurarsi ogni giorno con l’eternità, o con l’assenza di eternità. Io non posso giurare d’essere uno scrittore abbastanza buono, però la fatica di misurarmi con l’eternità o, peggio, con l’assenza di eternità, la conosco anch’io».

Ed è proprio nel richiamo all’Ecclesiaste, nel dialogo tra l’uomo e Dio circa il senso dell’esistenza, che traspare (nel romanzo più che nel film) la religiosità di Berto. Quella stessa religiosità che ritroviamo anche tra le pagine de “La gloria” in cui viene avviato un intenso dialogo con Cristo in termini umani ed esistenziali.

 

 


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Stefania Romito

Stefania Romito è giornalista pubblicista e scrittrice.

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