APERTAMENTE di Paolo Zannetti*. Rileggere oggi Giuseppe Prezzolini
Il successo nella vita è spesso un’arma a doppio taglio, e questo è particolarmente vero quando il successo arriva molto presto (basta guardare le vicissitudini adulte di molti bambini prodigio nel mondo dello spettacolo…). A soli 21 anni, nel 1903, Giuseppe Prezzolini con Giovanni Papini fonda la rivista culturale Leonardo, e poi nel 1908 fonda La Voce, che attira (e scopre) collaboratori di altissimo livello: Ardengo Soffici, Emilio Cecchi, Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Giovanni Gentile, Ildebrando Pizzetti, Vincenzo Cardarelli, e tanti altri.
La Voce è anticonformista, spregiudicata, senza però cadere nel bohemismo scapigliato della precedente generazione. In arte, la rivista polemizza contro lo stile ed i vizi di Gabriele D’Annunzio; ed in politica contro il trasformismo di Giovanni Giolitti (anche se più tardi Prezzolini rivalutò Giolitti[1]).
Per tutta la sua lunga vita – morì centenario lavorando e pubblicando fino all’ultimo giorno – e nonostante i suoi vari successi accademici e letterari, Prezzolini fu ricordato sempre, e prima di ogni altra cosa, per il successo della Voce – una esperienza che non ha riscontri nella storia della cultura italiana. Curzio Malaparte la definì la serra calda del fascismo e dell’antifascismo[2]. Ci possiamo forse chiedere se a Prezzolini desse un po’ fastidio essere sempre ricordato per i successi giovanili; se sì, egli non lo dimostrò, ed anzi di questi successi fu sempre orgoglioso.
L’importanza di Prezzolini è evidente nell’affetto ed ammirazione con cui lo citano e ricordano tante persone importanti, per esempio Indro Montanelli e Paolo VI. Montanelli fu un amico, un dichiarato discepolo ed un ammiratore; negli anni di piombo, definì Prezzolini il vero inventore della contestazione (avrebbe voluto averlo come collaboratore al Giornale, ma incontrò dei veti interni, oggi difficili a capire). In una udienza generale nel 1974, Paolo VI addirittura – caso più unico che raro – invitò esplicitamente Prezzolini a convertirsi al cattolicesimo dicendo … e aspettiamo ancora Prezzolini! Fu una sorpresa ed un onore, ma Prezzolini declinò educatamente l’invito – aveva scritto pochi anni prima Dio è un Rischio, in cui elaborava il suo agnosticismo con sincerità, rispetto, ed alta spiritualità (cosa quest’ultima che spesso manca ad atei ed agnostici).
Ebbe anche fortuna; per esempio, la fortuna di nascere in un momento critico in Europa per le lettere e le arti e di trovarsi subito immerso nel mondo culturale del nuovo secolo, in pieno fermento, dove tutto veniva messo in discussione ed i canoni ottocenteschi si rivelavano completamente inadeguati a soddisfare le esigenze delle nuove generazioni. Dopo la marcia su Roma, grazie alla sua reputazione ed ai suoi contatti, avrebbe potuto prosperare e convivere con il regime, ma da buona anima libera sentì puzza di bruciato e decise di trasferirsi negli Stati Uniti per insegnare alla Columbia University di New York e diventare anche Direttore della Casa Italiana presso quella università, dove venne nominato professore emerito nel 1948.
Nel dopoguerra, forse colpito da una crisi di nostalgia, riprese le sue collaborazioni con giornali e editori in Italia e, negli anni 60 lasciò definitivamente gli Stati Uniti per trasferirsi sulla costiera amalfitana. Poi, con disgusto per burocrazia, corruzione, furbizia, scioperomania, stato assistenziale, e mediocrità della classe politica, traslocò quasi novantenne a Lugano nel 1969. Quando Montanelli andò a trovarlo lì notò che Prezzolini … coi ticinesi non ha ancora litigato. Ma si vede che si propone prima o poi di farlo perché non ha stretto rapporti di amicizia, e nemmeno di buon vicinato (ma forse è una esagerazione, perché altre fonti ci danno un Prezzolini ben inserito, sereno e felice a Lugano, dove pure scriveva una colonna settimanale per la Gazzetta Ticinese).
Ebbe pochi onori dall’Italia, ma poco prima dei novant’anni il Presidente della Repubblica Saragat lo chiamò al Quirinale per conferirgli il titolo di Cavaliere di Gran Croce della Repubblica. Morì centenario nel 1982. Come ricorda il suo amico Giovanni Spadolini, la mente di Prezzolini anche negli ultimissimi anni rimase incredibilmente lucida e si esprimeva con precisi ricordi, citazioni ed aneddoti. La sua scrivania era piena di carte, libri, annotazioni, e lavoro incessante.
Prezzolini fu autodidatta, indipendente, solitario, profondo testimone di fatti, uomini, e idee. La sua produzione letteraria è enorme con 57 libri e quasi 150 saggi, più i diari ed un ricco epistolario; la sua prosa è limpida e scanzonata; il suo archivio personale si trova presso la Biblioteca Cantonale di Lugano. Dice Davide D’Alessandro … nessuno mi ha spiegato e raccontato Niccolò Machiavelli come Prezzolini, con quel piccolo capolavoro scritto nel 1926, pubblicato nel 1927, più volte ristampato e mai dimenticato da chi non sopporta la noia e la cattiva scrittura, da chi non smette di rileggerlo perché la maestria dello scrivere non s’inventa, perché il timbro del maestro non è replicabile, perché la pasta umana del Segretario fiorentino emerge in tutta la sua grandezza, carattere vivido e mai superato. Gennaro Sangiuliano chiama Prezzolini l’intellettuale più originale e scomodo del Novecento.
Il meglio di Prezzolini si trova nell’aver scoperto ed aiutato tanti giovani talenti e nella sua critica letteraria, dove fornisce commenti, giudizi e motti chiari e taglienti. Eccone alcuni. Dante è il maschio poeta nazionale d’Italia. Petrarca fu sottile e poco profondo. Le fonti personali del Boccaccio furono Napoli, ossia la voluttà, e Firenze, ossia l’intelligenza. Pochi scrittori italiani si possono dire esenti totalmente dalla retorica: una grande e totale eccezione fu Galileo. Il Tasso piacerà sempre più alle anime romantiche, mentre l’Ariosto sarà sempre più ammirato dagli spiriti classici. Machiavelli ebbe entusiasmo quasi mistico per una Italia unita, armata e spretata. I Ricordi del Guicciardini sono scritti per la famiglia, come un codice della verità della vita che non sta bene svelare al pubblico. Il libro Le Mie Prigioni di Silvio Pellico è scritto in un italiano semplice e puro, degno dei primi secoli della lingua. Con Alessandro Manzoni il romanticismo giunge a noi come passato al setaccio di una mente classica, ordinata, posata. Lo stile e la lingua del Leopardi sono indirizzati verso una forma ideale ed aristocratica. Con il Mazzini, soltanto a piccole dosi è possibile oggi apprezzare il suo entusiasmo romantico e religioso. La prosa del Carducci offre sempre al lettore d’oggi un’isola di sanità e di sincerità. D’Annunzio fu mosaicista di movimenti, d’idee, di movenze e di epiteti da ogni letteratura antica e moderna. Per il Pascoli, tolto dal suo piccolo mondo immediato, la caduta nelle sottigliezze e negli arzigogoli gli è facile. La personalità olimpica di Benedetto Croce considerava dall’alto le vicende della vita.
Ed infine disse – forse un po’ paradossalmente – che ci sono due libri che sembrano riassumere bene lo spirito più profondo del popolo italiano: Pinocchio e Bertoldo. Il primo non è solo per ragazzi, ma è pieno di una saviezza cittadina, mondana, ed adulta. Il secondo è un poema di sapienza contadina, della diffidenza del povero verso il ricco, e dell’ignorante contro le classi cosiddette colte.
Se usciamo dalla letteratura per entrare nel mondo della critica sociale, Prezzolini ci ricorda che L’Italiano ha un tale culto per la furbizia, che arriva persino all’ammirazione di chi se ne serve a suo danno; In Italia nulla è stabile fuorché il provvisorio; Il dire niente in molte parole è stata sempre la prima qualità degli uomini politici; I fessi hanno dei principi. I furbi soltanto dei fini; L’irreligiosità moderna è una nuova freschezza di spirito, un atto morale, una liberazione.
E per concludere, ecco forse il suo giudizio più bello: Tutto il male dell’Italia viene dall’anarchia. Ma anche tutto il bene.
[1] Scrisse: In fondo quest’uomo freddo e burocratico, industriale e pratico, è quel che ci voleva per un popolo che si lascia troppo spesso trascinare dall’entusiasmo o dalla retorica. Giolitti è un segno dei tempi; egli è la sovrana apparizione della “prosa” nel campo della politica italiana, è il ritmo del Codice Commerciale, scandito in una nazione di versaioli e di pindarici.
[2] Prezzolini scrisse che tra i principali collaboratori della Voce diventarono nettamente fascisti Agnoletti, Cardarelli, Codignola, De Robertis, Gentile, Murri, Mussolini, Papini, e Soffici; antifascisti Ambrosini, Amendola, Croce, Einaudi, Emery, Jahier, Longhi, Omodeo, e Monti; e difficili da classificare Angelini, Bacchelli, Bastianelli, Boine, Cecchi, Linati, Lombardo-Radice, Pizzetti, Prezzolini, Slataper, Vaina, e Vedrani.
*Paolo Zanetti, fisico nucleare e umanista, vive e lavora da anni in California