Con “La scàtla parlanti” commedia di Gaspare Mastro, ritorna in teatro, il Gruppo Teatro Carmine
Il Gruppo Teatro Carmine, fondato e diretto da Gaspare Mastro, cultore della tradizione, artista rinomato, nonché regista e attore del gruppo, ritorna dopo tre anni sul palcoscenico del Monticello di Grottaglie con la commedia “La scàtla parlanti”. Sarà perché è la più sacra e antica forma di “assembramento” ma il teatro è stato una delle vittime sacrificali del coronavirus.
La sua assenza non ha permesso alla società di vivere la sua componente relazionale e pertanto la ripresa diventa strumento per riconquistare la vicinanza persa a causa della pandemia. Nonostante il senso d’incertezza che ha caratterizzato tutto il mondo artistico, creando a volte i presupposti per nuova linfa creativa, la pandemia ha messo a dura prova molti settori culturali. Il Teatro Amatoriale, come quello del Carmine, riprende la sua normale attività di prosa, ovviamente senza fini di lucro, per dare continuità a quell’amore teatrale iniziato nel 1996 nella Parrocchia del Carmine di Grottaglie. Una tradizione teatrale, quella del Carmine, esistente negli anni 60’ con due gruppi teatrali, maschile e femminile (tipica per quel tempo) dell’Azione Cattolica Pio XII.
È bene ricordare alle nuove generazioni che la vocazione teatrale amatoriale nella città delle ceramiche era presente anche con altre gruppi come quella del “Teatro Grottagliese” di Vincenzo Cofano e del “Piccolo Teatro di Grottaglie” di Cosimo Piergianni. Oggi il Gruppo Teatro Carmine con l’ultimo lavoro della “Scàtla Parlanti” consegna alla storia ben 18 commedie: (1996) “Natali a llu spìziu”, (1998) “ A casa ti ton Pascali”, (1999) “Bbélli Tiémpi”, (2000) “Ci uè criti, criti”, (2001) “Tutti a casa mea”, (2003) “La bbona strata”, (2005) “ Lu spizìu”, (2007) “ Ccè cafèu”, (2010) “ La sacristia”, (2012) “La capu è nnu spuégghiu ti cipòdda”, (2013) “Tutti a mare”, (2014) “ La miticina ggiusta”, (2015) “Lu Condominiu”, (2016) “Sènza nisciunu ntarèssi”, (2017) “Non c’èti comu a nui”, (2018) “La Chiazza cupèrta”, (2019) “L’uècchji ti luci”, (2023) “La scàtla parlanti”, tutte in vernacolo non arcaico per testimoniare l’identità di una comunità attraverso fatti, comportamenti, scene di vita quotidiana sociale e familiare di un tempo.
Una rassegna di opere che dimostra quanto il teatro dialettale piaccia, incuriosisca, susciti nello spettatore spunti di riflessione, che faccia sorridere ma nel contempo faccia anche riflettere. Storie del passato che uniscono l’arte teatrale con l’identità orale di una comunità, che va preservato non solo per il suo valore tradizionale, ma anche per la sua capacità di avvicinare il pubblico e permettergli di identificarsi. I personaggi sono spesso uomini e donne normali, eroi modesti della quotidianità che con la loro bravura ci consentono di vivere oggi quegli aspetti di una volta catapultati nel periodo attuale.
Nell’ultimo lavoro di Gaspare Mastro le vicissitudini ed i comportamenti dei personaggi, anche se possono sembrare atipici nella società odierna, continuano ancora ad esistere nella vita di oggi mascherati dall’alone della modernità. Il lungo periodo pandemico ha influenzato negativamente i comportamenti e lo stato di salute, come la capacità di esprimere simpatia e gentilezza verso gli altri; la capacità di essere aperti a nuovi concetti e disposti a impegnarci in nuove situazioni; la tendenza a cercare e godere della compagnia degli altri; il desiderio di svolgere bene i compiti o assumerci seriamente le responsabilità nei confronti degli altri. Tutto questo nei due atti della commedia viene fuori e si manifesta nei comportamenti dei personaggi con evidenti forme di irritabilità, depressione, ansia, scarsa fiducia in se stessi, autocontrollo. Il presunto cambiamento di personalità del titolare dell’hotel è comprensibile, dato che ha affrontato un lungo periodo di difficoltà, compresi i vincoli alle nostre libertà, il mancato guadagno, le paure e la malattia. Esperienze che hanno evidentemente cambiato apparentemente la sua personalità ma non la sua umanità. La sua vocazione attuale a scrivere poesie è anacronistica per la sua famiglia che, insieme agli altri che frequentano l’hotel sponsorizzato dal Comune, devono imparare a disobbedire a quella vita in cui era obbligatorio sembrare felici e farlo vedere, in cui vigeva lo strapotere del visibile, l’assoluto della competizione. Cosa ce ne facciamo adesso di tutta quella montagna di apparenza, a cosa ci è servito quell’egocentrismo esagerato. L’invisibile è molto più potente. Ciò che proviamo non si vede. Ciò che siamo non si vede. I desideri, i segreti, i pensieri, l’anima, non si vedono.
Ma da quella scatola di poesie nasce la speranza della rinascita. ‘Forse’ re-impareremo a vivere più lentamente, assaporando la vita senza dover subire (alienandoci da noi stessi, dalla vita, dalla bellezza), i ‘tempi ciclo’ dettati e imposti dal metronomo sempre più accelerato del tecno-capitalismo. Questa sicuramente è la chiave di lettura della “Scàtla parlanti” ben rappresentata ed interpretata da fatti, usi e costumi della nostra gente, della nostra terra, convinti di portare in scena anche le tradizioni. Mettere in scena un nuovo lavoro è sempre un’operazione culturale e artistica. La tradizione con il teatro possiamo valorizzarla, mitizzarla, rivisitarla, interpretarla, sognarla, ma mai conservarla!
Un grande lavoro lo svolgono gli attori, gente non professionista amanti del teatro, che conoscono bene la lingua della nostra terra, la usano e con essa dipingono tipi e caratteri, costruendo situazioni ormai scomparse. Sono anche loro autori del teatro dialettale con l’impegno a mettere in atto tecniche di recitazione abbinate alla lingua dialettale. Un aspetto importante del teatro dialettale è quello che deve far ridere… insomma, bisogna far ridere! Un compito arduo di autori e registi che, oltre alla qualità dello spettacolo, la conoscenza della cultura teatrale, della letteratura e della linguistica, devono curare la risata con battute, doppi sensi, parole strane tra italiano e dialetto, devono strappare risate a non finire.
Molti si chiedono se il teatro dialettale serve a conservare la lingua d’origine. In questo mondo di comunicazione di massa il messaggio che la commedia dialettale deve trasmettere al pubblico è un fascio di codici verbali, gestuali, luminosi in quanto le attuali e nuove generazioni non sanno nulla del passato, non conoscono il dialetto e particolari termini dialettali e particolari modi di dire sconosciuti; quindi l’aspetto teatrale deve predominare rispetto alla lingua dialettale anche se usata correttamente. Il teatro dialettale, nonostante il grande impegno di autori, registi, attori, non può conservare il dialetto o divulgarne una copia dell’originale. Ne sancisce il cambiamento, la trasformazione, ma così facendo lo rende attuale e vitale, gli attribuisce un uso che prima non aveva: quello teatrale.
Quindi prima di tutto teatro e poi dialetto come mezzo usato dal teatro per caratterizzare certe situazioni, per condire certi avvenimenti, per rendere più locali certi fatti universali. In attesa del prossimo lavoro, porgo a tutti gli attori, a tutta l’equipe organizzativa e a Gaspare Mastro gli auguri più sinceri per questo nuovo ed interessante lavoro svolto che, non solo ha riempito di allegria e commozione il cuore dei presenti, ma ha dato seri spunti di riflessione sulla nostra vita post pandemica che deve avere una nuova visione relazionale umana e sull’organizzazione sociale. La tecnologia del nostro secolo, sicuramente aiuta, ma non risolve la nostra esistenza perché dobbiamo andare alla ricerca di senso dell’uomo come desiderio di relazioni autentiche.

Cultore delle tradizioni locali
blogger “Grottagliesità”
e Presidente dell’ANTEAS Grottaglie