Il Cavolfiore che cantava a mezzogiorno
C’era una volta, o forse un mercoledì al contrario, un piccolo cappello a pois chiamato Ernesto, imbottito non di lana ma di malinconie inutilizzate, con un’etichetta sbiadita che recitava: “Non lavare mai i sogni a secco”. Ernesto abitava in una bottega di Taranto che vendeva solo ciò che non poteva essere comprato: domande senza risposta, ombre smarrite, lacrime disidratate da appendere al muro.
Il negozio era gestito da un’anguilla in pensione chiamata Filiberto, che sognava di diventare parrucchiere per idee. Quando Ernesto si lamentava dell’umidità esistenziale, Filiberto lo consolava con aforismi presi da vecchi biscotti della fortuna cucinati da un monaco dislessico.
Ernesto aveva una routine molto semplice: ogni martedì alle 10:45 (ora ufficiale della melancolia marina) saliva su uno sgabello, indossava una barba finta fatta di spago e cantava l’inno nazionale dei calamari in fa diesis minore. I passanti si fermavano. Alcuni applaudivano, altri inciampavano nelle proprie emozioni. Una signora di nome Teodolinda una volta gli lanciò una torta di parole incartate. Era amore? Era glutine poetico? Nessuno lo seppe mai.
Un giorno, mentre camminava a ritroso per evitare il presente, Ernesto inciampò su un pensiero distratto e decise di partire.
Salì a bordo di una nave diretta a New York, costruita interamente con mollica di pane integrale e colla di nostalgia. Il capitano era un gabbiano bilingue che citava Dostoevskij nei momenti di burrasca. Navigarono tra onde fatte di ricevute fiscali mai emesse e pesci psicologi che offrivano sedute gratuite.
Purtroppo, la nave sbagliò Atlantico e attraccò a Cuneo.
Ma Ernesto non se ne accorse, perché la città si era travestita da Manhattan per partecipare al Carnevale delle Identità Smarrite. In piazza Garibaldi danzavano semafori sensibili, mentre gli ascensori cantavano canzoni di protesta contro la gravità. Fu lì che Ernesto conobbe Marilù, una trottola in pensione con la voce da mezzosoprano e un’anima multipla.
Marilù gli disse: “Tu non sei un cappello, sei un enigma travestito da risposta.” Poi gli regalò una valigia piena di coriandoli, bigodini da meditazione e una mappa dell’invisibile. Sopra c’era scritto: “Segui la linea che non c’è, e arriverai dove non sei.”
Ernesto si mise in cammino, o meglio: in deragliamento.
Attraversò sette deserti di punti interrogativi, una metropolitana sospesa sopra il nulla e una città interamente abitata da eco che non ricordavano l’origine della voce. Una notte dormì sotto un ponte fatto di pentagrammi interrotti, sognò di essere un violino e si svegliò chitarra. Un mimo gli insegnò a ridere in silenzio, una volpe gli fece assaggiare un’illusione al gusto liquirizia, e un cactus gli recitò il Canto dei Canti al contrario.
Arrivò finalmente a New York volando su una mongolfiera di pensieri non detti, cucita da una sarta cieca che lavorava solo nei sogni dei neonati. Atterrò in pieno Times Square durante il Festival dell’Incoerenza, organizzato da un piccione ministro della cultura.
Lì si esibì in uno spettacolo di mimo sinfonico dal titolo: “L’eco del broccolo invisibile”. Fu un successo. I critici applaudivano in braille. Il pubblico sveniva per commozione in scala dorica. Gli offrirono una statua, una giraffa e un contratto con un’etichetta discografica specializzata in silenzi registrati.
Ma Ernesto non cercava fama. Cercava qualcosa che non sapeva nemmeno pronunciare.
Fu allora che apparve Rosmunda, una mosca veggente in gonna di tulle e occhiali da poeta. “Ti aspettavo,” gli disse con voce che odorava di cannella e mistero. “Devi andare sul tetto di una verdura Dzogchen. Solo lì troverai l’equilibrio tra la cravatta e il senso del nulla.”
Ernesto, che credeva nella saggezza delle mosche (soprattutto quelle con la erre moscia), la seguì senza fare domande. Salirono su un treno fatto di vocali disoccupate e zucchero a velo filosofico. Viaggiarono per tredici ere geologiche e tre puntate di un sogno ricorrente.
Arrivarono infine in un luogo che non era un luogo, dove il tempo stava in pigiama e i concetti si stendevano al sole. Lì viveva una verdura. Non era un cavolfiore, né un sedano, ma una presenza vegetale intrisa di consapevolezza. Una verdura Dzogchen, silenziosa e assoluta, con un tetto.
Sul tetto — fatto di paglia, silenzio e haiku incompiuti — Ernesto si sedette.
E capì.
Non capì nulla, ma lo capì bene.
Restò lì per sette secoli interiori, cantando una nota sola che nessuno sentì, ma tutti ricordarono.
Ogni tanto riceveva lettere da sé stesso, scritte in alfabeti ancora non inventati. Una notte, una stella cadente gli chiese un autografo. Un’altra notte, un sogno lo citò in giudizio per plagio emotivo.
E infine, dopo tutto questo non-accadere, Ernesto scrisse un solo verso su un foglio bianco:
“Nonostante non sia vaccinato.”
Egidio Francesco Cipriano
Immagine generata AI