Decenni perduti: la cannabis e il silenzio imposto alla scienza
Lo sapevate che l’età d’oro della cannabis terminò nel 1970? Non fu un crollo naturale, non un disinteresse scientifico, ma una scelta politica. Da allora, la cannabis divenne per decenni una parola da pronunciare a bassa voce nei laboratori, una materia proibita anche per chi cercava nel dolore umano una cura possibile. La medicina dovette girarsi dall’altra parte. La ricerca fu silenziata. La scienza restò in attesa.
La frattura del 1970
È il 1970. Gli Stati Uniti, con il Controlled Substances Act, classificano la cannabis come sostanza di Schedule I, la categoria più alta per pericolosità: al pari di eroina, LSD e mescalina. Il messaggio è chiaro: “nessun uso medico accettato e alto potenziale di abuso”. Nessuna eccezione. Nessuna sfumatura. Solo il timbro della legge.
Questa classificazione non fu neutra. Non si trattò di una misura cautelare temporanea, ma di una vera cesura epistemica: da quel momento in poi, ogni ricerca sulla cannabis venne sottoposta a un sistema di autorizzazioni multiple – DEA, FDA, comitati etici, permessi speciali – e si poté utilizzare solo cannabis prodotta in un’unica sede: l’Università del Mississippi, con coltivazioni controllate, spesso scadenti e poco rappresentative delle varietà diffuse nel mondo reale.
La Schedule I era, ed è tuttora, una condanna al silenzio: non solo per chi voleva abusare della sostanza, ma per chi desiderava comprenderla, studiarla, curare con essa. Il paradosso è che, per autorizzare uno studio clinico, si chiedeva di dimostrare a priori l’efficacia terapeutica della cannabis… ma non si poteva dimostrare nulla senza prima poterla studiare. Un cortocircuito logico e normativo che ha paralizzato per anni la ricerca biomedica.
Scienza zittita
Negli anni precedenti, scienziati come Raphael Mechoulam – che nel 1964 aveva isolato e sintetizzato il THC – avevano aperto la strada a una nuova comprensione del funzionamento del cervello, intuendo l’esistenza di un sistema biologico endogeno con cui i fitocannabinoidi interagivano. Ma dopo il 1970, il silenzio calò su ogni laboratorio.
I pochi studi ancora autorizzati erano spesso in vitro, marginali, pubblicati in riviste di scarso impatto, e condotti con materiali biologici di bassa qualità. Gli effetti terapeutici sul dolore cronico, il glaucoma, l’epilessia, la nausea da chemioterapia rimasero oggetto di testimonianze aneddotiche e raramente furono sistematizzati.
E non era solo un errore tecnico. Era un errore culturale. Ideologico. Una scelta motivata anche da calcoli politici e sociali: documenti emersi decenni dopo mostrano che la “guerra alla droga” di Nixon fu anche un modo per colpire minoranze nere e latinoamericane e screditare i movimenti contro la guerra in Vietnam. La cannabis era diventata un simbolo da reprimere, più che una sostanza da comprendere.
Persino la Commissione Shafer, nominata da Nixon stesso, pubblicò nel 1972 un rapporto che raccomandava la decriminalizzazione della cannabis e ne minimizzava la pericolosità. Ma il presidente ignorò deliberatamente il documento e decise di continuare nella direzione proibizionista, rafforzando il paradigma punitivo e impedendo qualsiasi apertura scientifica.
Una medicina dimenticata
Se oggi conosciamo le proprietà anticonvulsivanti del CBD, gli effetti antinfiammatori e antitumorali dei fitocannabinoidi, la loro efficacia nel ridurre spasmi, nausea, dolori neuropatici e ansia, lo dobbiamo alla perseveranza di una minoranza di ricercatori.
Il sistema endocannabinoide, scoperto definitivamente solo negli anni ’90, si rivelò uno dei sistemi regolatori più pervasivi del corpo umano, presente nel sistema nervoso centrale e periferico, coinvolto in processi come l’umore, l’appetito, l’infiammazione, la neuroprotezione. Per decenni, però, fu completamente ignorato. Non perché fosse inutile, ma perché la pianta che lo attivava era illegale.
In altri contesti scientifici, lo studio dei neurotrasmettitori – serotonina, dopamina, acetilcolina – aveva fatto fare progressi enormi alla medicina. Ma nel caso della cannabis, l’ideologia proibizionista mise un freno a tutto.
E nel frattempo, milioni di pazienti venivano curati con farmaci più tossici, oppioidi sintetici, psicotropi pesanti, mentre la cannabis restava chiusa in un caveau legislativo.
Il risveglio
Solo a partire dagli anni 2000 le cose cominciarono lentamente a cambiare. Prima a livello statale: la California, nel 1996, fu il primo Stato a legalizzare l’uso medico della cannabis. Seguirono Colorado, Oregon, Washington, Vermont, e oggi più di 30 stati americani consentono l’uso medico o ricreativo della pianta, mentre a livello federale resta illegale.
Nel 2016, la DEA semplificò alcune pratiche: fu eliminata la revisione del Public Health Service, si autorizzarono nuove sedi di produzione per la ricerca, e si permise – almeno teoricamente – di accedere a varietà più rappresentative.
Nel 2023, il Dipartimento della Salute (HHS) ha raccomandato ufficialmente alla DEA la riclassificazione della cannabis da Schedule I a Schedule III, aprendo la strada a un riconoscimento esplicito dell’uso medico, analogamente agli oppiacei e alle benzodiazepine. Ma nel 2025 la DEA ha mostrato forti resistenze. Come se il proibizionismo avesse radici più profonde della scienza.
Una lezione da non dimenticare
La storia della cannabis non è solo la storia di una pianta, ma la storia del silenzio imposto alla scienza da un potere politico miope e ideologico. È la storia di un sapere congelato per legge. È il paradosso di una medicina dimenticata per decreto.
Se non fosse stata classificata come Schedule I, oggi potremmo avere:
- terapie cannabinoidi standardizzate per patologie neurodegenerative,
- protocolli ospedalieri per il trattamento del dolore oncologico,
- regolamentazioni più sicure rispetto al mercato nero,
- una migliore comprensione delle sinergie tra cannabinoidi e altri neurotrasmettitori.
La scienza, se non è libera, non è più scienza, e il dolore, se ignorato per legge, non smette di far male.
Egidio Francesco Cipriano
Foto di Julia Teichmann da Pixabay